Per gli antichi Greci, le cicale erano figlie della Terra o, secondo alcuni, di Titone e di Aurora. Specialmente gli ateniesi le onoravano: Aristofane rammenta le cicale d'oro, ornamento per i capelli degli Ateniesi nobili all'epoca arcaica e nella celebrazione dei Misteri eleusini in onore di Demetra, era uso portare nei capelli una fibula a forma di cicala, così come durante la celebrazione dei misteri di Era a Samos. Per Platone le cicale sono gli antichi artisti, specie nel campo musicale e dell'eloquenza, che hanno smesso di mangiare e accoppiarsi per amore della propria disciplina. Secondo Orapollo la cicala simboleggiava l'iniziazione ai misteri, poiché essa anziché cantare con la bocca, come tutti, emette suoni dalla coda. La cicala era anche simbolo di purezza: seguendo un'errata credenza ripresa da Plinio il Vecchio si riteneva che le cicale si nutrissero di sola rugiada e ciò faceva sì che il loro corpo non contenesse sangue e non dovessero espellere escrementi e di qui l'idea della purezza. Il fatto poi che la cicala viva una sola estate ma le sue larve rinascano in quella successiva direttamente dalla terra ne ha fatto l'emblema di una resurrezione a nuova vita dopo la morte persino presso i cinesi. Tra i poeti contemporanei, Giosuè Carducci ha elogiato questi insetti ne "Le risorse di San Miniato" e scherzosamente rimprovera Virgilio e Ludovico Ariosto per averle definite querule e noiose.
Ma la cicala ha anche una fama negativa, quella di vivere alla giornata cantando senza preoccuparsi del domani, assurgendo così a simbolo dell'imprevidenza. Esopo, nella sua notissima favola La cicala e la formica, narra che la cicala si fosse dilettata tutta l'estate a cantare senza preoccuparsi di provvedere ad immagazzinare cibo per l'inverno. Giunta la cattiva stagione essa si rivolse alla previdente formica chiedendole aiuto e questa le chiese di rimando che cosa avesse fatto tutta l'estate non avendo provveduto al cibo, al che la cicala rispose di aver sempre cantato e la formica replicò: «Allora adesso balla!».
La cicala depone le uova, dalle uova nasce una larva che vive sottoterra per parecchio tempo. Poi quando è il momento esce e cerca un posto dove arrampicarsi per lasciare la pelle di larva ed uscire alla sua nuova vita di cicala.
ieri sera a Colle Moro sulla poltrona di Barbara...eccola qui che ri-nasce come Dioniso
il mito di Dioniso
Quando Zeus, il padre degli dei, tornò dalla sua amante Semele, questa gli chiese di offrirle un regalo ed egli promise di esaudire qualsiasi desiderio della fanciulla. Semele chiese allora al re degli dei di manifestarsi in tutta la sua potenza. Zeus, disperato, fu costretto a realizzare tale richiesta e si recò al cospetto di Semele armato delle sue
folgori. Come nella versione precedente, la giovane viene folgorata. Per impedire che il bambino venisse bruciato,
Gea, la Terra, fece crescere dell'
edera fresca in corrispondenza del feto del bambino; ma Zeus, che non aveva dimenticato il bambino che ella portava in grembo, incaricò
Ermes (o secondo altri egli stesso), si affrettò a strapparne il
feto dal suo ventre e praticò un'incisione sulla sua coscia, nella quale se lo cucì. Qui vi poté maturare altri tre mesi e, passato il tempo necessario, lo fece uscire fuori, perfettamente vivo e formato. Zeus gli diede il nome di Dioniso che appunto vuol dire il "nato due volte" o anche "il fanciullo dalla doppia porta". Secondo altri il nome Dioniso è invece da ricollegare alla
mitica località che gli diede i natali. Dioniso era soprannominato anche
Trigonos, “il nato tre volte”: dal ventre della madre Semele, dalla coscia di Zeus e dalle sue stesse membra dilaniate dai Titani.
Il neonato "nato dalla coscia di Zeus" già dalla sua venuta al mondo possedeva delle piccole corna con dei ricciolini serpentini; Zeus lo affidò immediatamente alle cure di Ermes.
A te che sei tutto
E di tutto l’estremo contrario
Non è facile
Levare il canto
Per i molti tuoi doni
E gli insondabili abissi
Tra cui ti nascondi
Le maschere di Dioniso erano venerate come "epifanie" del dio stesso, e non come semplici suoi simboli. L’uomo che indossava una simile maschera, in un certo senso, indossava il dio, e non solo in apparenza, assumendo le sue fantastiche sembianze del volto, ma anche nella sostanza, immedesimando il proprio spirito con quello di Dioniso. L’adepto che compiva questo camuffamento diventava, per così dire, un essere ‘altro’ da se stesso. In effetti Dioniso è il "dio-altro", il "dio-estraneo", il "dio-straniero": non fa parte del consesso olimpico, perché forse è venuto da lontano, dal di fuori. Pausania racconta la storia di un oggetto ‘estraneo’, una enigmatica maschera di legno trovata da alcuni pescatori di Lesbo in fondo al mare, che subito fu considerata epifania di Dioniso. Questa immagine che emerge dal mare, anch’esso uno spazio ‘altro’, è un enigma da decifrare, perché in questo volto c’è appunto qualcosa di xènos (Baccanti, 453), cioè di "strano" e di "straniero", secondo il doppio, ambiguo, significato della parola greca: "straniero", infatti, non designa il non-greco, ossia il "barbaro", ma il cittadino di una comunità vicina. Penteo, nelle Baccanti di Euripide, si rivolge a Dioniso come xènos. Chi indossava la maschera, dunque, diventava "altro".
Ma come mai l’ "alterità" sembra essere l’unico fine a cui i fedeli tendevano durante i culti misterici?
Perché "altro", in campo dionisiaco, era sinonimo di "tutto". Essere "altro" dall’individuo significava divenire uguale alla "totalità": totalità che in questo caso è coincidentia oppositorum, unione dei contrari. La maschera stessa, di per sé, contiene una polarità di significati opposti: è "presenza", perché considerata epifania di Dioniso, ma allo stesso tempo è "assenza", perché ha le orbite vuote, e aspetta di essere indossata da qualcuno. E questo qualcuno diventa Dioniso, pur rimanendo se stesso, e, anche se UNO, rispecchia in sé i MOLTI.
C’è un mito orfico in cui Dioniso ci appare bambino che, con la faccia tutta impiastricciata di gesso (una sorta di maschera bianca), si guarda allo specchio e non riconosce più la sua stessa figura, considerandosi "altro" da sé. Che cosa significa questo mito?
Esso ci dice che il dio bambino, guardando la sua faccia bianca in uno specchio, non vede più se stesso, ma il Tutto. Ed ecco perché nel celebre affresco della Villa dei Misteri a Pompei è raffigurato un adepto che guarda in una coppa di vino, nella quale è riflessa l’enigmatica espressione di una maschera dionisiaca: in quella coppa c’è il Tutto.
Il dionisismo, dunque, è la ricerca di una divina armonia con l’universo, il tentativo di abolire le differenze fra animale e uomo e fra uomo e dio. Tappa forzata, però, e straziante, è l’annullamento dei contrari: la maschera costituisce l’arché e il tèlos, il "principio" e il "fine", di questo cammino di misteriosa trasformazione; e lo sguardo inquietante delle sue orbite vuote apre l’adepto a prospettive oscure e luminose, comunque sovrumane.