La Psicologia Analitica (ovvero l'analisi del profondo, cioe' dell'insieme di processi psichici che possono esprimersi attraverso rappresentazioni, immagini, parole, sogni, emozioni, agiti e sintomi) è nata da una costola della Psicoanalisi di Freud e poi si è distaccata da questa poiche' Jung ritiene che la libido non si manifesti solo nelle istanze pulsionali individuali, ma che, invece, sia la manifestazione individuale del substrato archetipico profondo dell'umanita' e che attraverso l'immagine archetipica, sia il motore della trasformazione del singolo ed in nome dell'archetipo simbolico si privilegia la parola: il parlare, il raccontare, il fare associazioni, stando seduti su una sedia, o anche il parlare ad una sedia vuota immaginandovi seduto un interlocutore altro, oppure recitando su un palcoscenico e/o anche dipingendo e/o danzando; seguendo cioè quel metodo libero che permette di guardarsi dentro e prendersi cura di se', delle proprie immagini, ponendosi in ascolto di quel "piccolo popolo" e di quelle "personalita' multiple" che abitano la nostra psiche. Nell'individuare il senso simbolico e archetipico di ciò che ci crea disagio o disturbo, possiamo utilizzarne l'energia per la "trasformazione" e per la propria individuazione, corrispondente all'armonia delle energie psichiche anche attraverso i più svariati metodi (dall'immaginazione attiva alle tecniche teatrali, all'arte, ecc.) che portano al benessere psichico in quanto permettono l'armonica espressione dell'anima e, attraverso uno studio esperenziale su: l'inconscio collettivo, la coscienza collettiva , gli archetipi, i riti, i miti, i sogni, le fantasie, i simboli, le emozioni, gli agiti, la comunicazione corporea, il processo d'individuazione, le immagini alchemiche, i tipi psicologici, gli enneatipi, l'anima come visione in trasparenza.
"Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita. Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle. Alla fine di questa giornata rimane ciò che è rimasto di ieri e ciò che rimarrà di domani; l’ansia insaziabile e molteplice dell’essere sempre la stessa persona e un’altra."
"Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l'idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo. Questo discorso vale per tutta la gamma dell'amore. Nell'amore sessuale cerchiamo il nostro piacere ottenuto attraverso un corpo estraneo. Nell'amore che non è quello sessuale cerchiamo un nostro piacere ottenuto attraverso un'idea nostra. [...] Due persone dicono reciprocamente "ti amo", o lo pensano, e ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino forse un colore diverso o un aroma diverso, nella somma astratta di impressioni che costituisce l'attività dell'anima."
“All'improvviso oggi ho dentro una sensazione assurda e giusta. Ho capito, con una illuminazione segreta, di non essere nessuno. Nessuno, assolutamente nessuno”Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera. Nessuno ha supposto che al mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso.
Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; per altri ancora, essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita.
Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che vogliamo è ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto; sapere tutto questo a ogni minuto, sentire tutto questo in ogni sentimento, non significherà essere straniero nella propria anima, esiliato nelle proprie sensazioni?"
Pessoa (Fernando Antonio è collegato a Sant'Antonio di Padova, da cui la sua famiglia reclamava una discendenza genealogica. Il nome di battesimo del Santo era infatti Fernando Bulhões, e il giorno a lui consacrato a Lisbona era il 13 giugno, lo stesso della sua nascita) nacque a Lisbona il 13 giugno 188 e lì morì il 30 nov.1935. Fu poeta, scrittore, filosofo e aforista come pochi altri nella storia della letteratura (e non solo) del '900, in cui si scompose (ortonimo) in varie altre personalità, contrassegnate da diversi eteronimi. La sua vita fu dedicata a creare, e che con questa creazione, creò altre vite attraverso i suoi eteronimi. Questo è stata la sua principale caratteristica, e il motivo di interesse per la sua persona, apparentemente così pacata. Egli fu «l'enigma in persona» (e, guarda caso, in portoghese "pessoa" significa "persona"). La sua figura enigmatica (legato alla "Tradizione Segreta" e gnostica del Cristianesimo, che ha relazioni intime con la "Tradizione Segreta" di Israele o Kabbalah e con l'essenza occulta della Massoneria, quindi possedeva legami con l'occultismo, il misticismo, la massoneria e i rosacroce) interessa gran parte degli studi sulla sua vita e opera, oltre ad essere il maggior autore della eteronomia. Morì a causa di problemi epatici all'età di 47 anni nella stessa città dov'era nato. L'ultima frase che scrisse fu in inglese "I know not what tomorrow will bring... "(Non so cosa porterà il domani), e si riportano come le sue ultime parole "De-me os meus òculos!" (Datemi i miei occhiali).
« Ricordo, così, quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere a me stesso, e la cui figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio affetto che confina con la nostalgia." » |
“Sono in grande parte, la prosa stessa che scrivo. Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e nella sfrenata disposizioni delle immagini Sono, in gran parte, la prosa stessa che scrivo.
Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e, nella sfrenata disposizione delle immagini, come i bambini mi maschero da re con carta di giornale; oppure, ritmando una successione di parole, mi acconcio come i pazzi con fiori secchi che sono freschi solo nei miei sogni. ....
I sentimenti più dolorosi e le emozioni più pungenti, sono quelli assurdi: l'ansia di cose impossibili, proprio perché sono impossibili, la nostalgia di ciò che non c'è mai stato, il desiderio di ciò che potrebbe essere stato, la pena di non essere un altro, l'insoddisfazione per l'esistenza del mondo."
La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni e strida dentro di me: corde e arpe, timpani e tamburi. Mi conosco come una sinfonia.
Cancellare tutto dalla lavagna da un giorno all'altro, essere nuovo ad ogni nuova alba, in una nuova verginità perpetua dell'emozione...
« Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia,
non c'è niente di più semplice.
Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte.
Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte.
Tutti i giorni fra l'una e l'altra sono miei. »
Ed ecco qui - come fosse (ma lo è) una poesia - uno dei suoi pensieri-aforismi di cui è costellato il “libro dell'inquietudine” :
Litania
Noi
non ci realizziamo mai.
Siamo due abissi:
un pozzo
che fissa
il Cielo
Non subordinarsi a niente, né a un uomo né a un amore né a un'idea; avere quell'indipendenza distante che consiste nel diffidare della verità e, ammesso che esista, dell'utilità della sua conoscenza...Appartenere: ecco la banalità. Fede, ideale, donna o professione: ecco la prigione e le catene. Essere è essere libero... No: niente legami, neppure con noi stessi! Liberi da noi stessi e dagli altri, contemplativi privi di estasi, pensatori privi di conclusioni, vivremo, liberi da Dio, il piccolo intervallo che le distrazioni dei carnefici concedono alla nostra estasi da cortile...Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l'idea che ci facciamo di qualcuno. E' un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo. Questo discorso vale per tutta la gamma dell'amore. Nell'amore sessuale cerchiamo il nostro piacere ottenuto attraverso un corpo estraneo. Nell'amore che non è quello sessuale cerchiamo un nostro piacere ottenuto attraverso un'idea nostra... Perfino l'arte, nella quale si realizza la conoscenza di noi stessi, è una forma di ignoranza. Due persone dicono reciprocamente "ti amo", o lo pensano, e ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino forse un colore diverso o un aroma diverso, nella somma astratta di impressioni che costituisce l'attività dell'anima. Oggi sono lucido come se non esistessi. Il mio pensiero è evidente come uno scheletro, senza gli stracci carnali dell'illusione di esprimere. E queste considerazioni non sono nate da niente: o almeno da nessuna cosa per lo meno che sieda nella platea della mia coscienza...Vivere è non pensare...La felicità è fuori dalla felicità. Non c'è felicità se non con consapevolezza. Ma la consapevolezza della felicità è infelice, perché sapersi felice è sapere che si sta attraversando la felicità e che si dovrà subito lasciarla. Sapere è uccidere, nella felicità come in tutto... Diventato una pura attenzione dei sensi, fluttuo senza pensieri e senza emozioni... Come vorrei, lo sento in questo momento, essere una persona capace di vedere tutto questo come se non avesse con esso altro rapporto se non vederlo... Non aver imparato fin dalla nascita ad attribuire significati usati a tutte queste cose; poter separare l'immagine che le cose hanno in sé dall'immagine che è stata loro imposta... Smarrisco l'immagine che vedevo. Sono diventato un cieco che vede... Tutto questo non è più la Realtà: è semplicemente la Vita. (da "Il libro dell'inquietudine" di Fernando Pessoa)
ISTANTI
ISTANTI
Se potessi vivere di nuovo la mia vita.
Nella prossima cercherei di commettere più errori.
Non cercherei di essere
così perfetto, mi rilasserei di più.
Sarei più sciocco di quanto non lo sia già stato,
di fatto prenderei ben poche cose sul serio.
Sarei meno igienico.
Correrei più rischi,
farei più viaggi,
contemplerei più tramonti,
salirei più montagne,
nuoterei in più fiumi.
Andrei in più luoghi dove mai sono stato,
mangerei più gelati e meno fave,
avrei più problemi reali e meno immaginari.
Io fui uno di quelli che vissero ogni minuto
della loro vita sensati e con profitto;
certo mi sono preso qualche momento di allegria.
ma se potessi tornare indietro, cercherei
ma se potessi tornare indietro, cercherei
di avere soltanto momenti buoni.
Che, se non lo sapete, di questo
è fatta la vita,
di momenti: non perdere l'adesso.
Io ero uno di quelli che mai
andavano da nessuna parte senza un termometro,
una borsa dell'acqua calda, un ombrello e un paracadute;
se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero.
Se potessi tornare a vivere
comincerei ad andare scalzo all'inizio
della primavera
e resterei scalzo sino alla fine dell'autunno.
Farei più giri in calesse,
guarderei più albe
e giocherei con più bambini,
se mi trovassi di nuovo la vita davanti.
Ma vedete, ho 85 anni e so che sto morendo.
Jorge Luis Borges
La luna Jorge Luis Borges
«Sotto alberi inglesi meditai su quel labirinto perduto: lo immaginai inviolato e perfetto sulla cima segreta d’una montagna. Pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso e crescente che abbracciasse il passato e l’avvenire, e che implicasse in qualche modo anche gli astri»
(J.L. Borges – Il giardino dei sentieri che si biforcano) labirinto (dal greco labýrinthos) si riferisce al mitico palazzo costruito a Creta per tenervi segregato il Minotauro, il leggendario mostro dalla duplice natura (umana e ferina) poi ucciso dalla scure (làbrys in greco) di Teseo e dalla quale avrebbe poi preso il nome. L’etimologia della parola labirinto deriverebbe quindi dalla stessa radice della parola che indicava l’ascia a due lame, simbolo del potere reale a Creta. Nelle culture più diverse il labirinto è un modello iniziatico legato all’idea della morte e soprattutto all’idea del passaggio a un nuovo stato. Superare il labirinto, raggiungerne il centro e poi trovare la via d’uscita, indica allegoricamente il passaggio a un’altra dimensione, e per questo veniva impiegato anche come modello magico nelle dottrine esoteriche e misteriche. Il labirinto in generale può essere visto come metafora della ricostituzione dell’ordine perduto, e di conseguenza come metafora del pensiero umano, della psiche e della della sua struttura, per l’appunto, labirintica. Il labirinto è anche un simbolo del mondo, i cui schemi e la cui logica sono oscuri e incomprensibili all’uomo, ma chiari a colui che ne è l’architetto e l’artefice, e come tale esso è fonte di stupore e perplessità, quel genere di stupore (thaumàzein in greco) che secondo Aristotele è stato la causa principale e fondamentale della nascita della filosofia («Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia», Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 b.) Il labirinto è il luogo in cui la soluzione deve essere tentata ad ogni svolta, senza occhi e senza memoria: è il simbolo della ricerca istintiva, anteriore alla ragione e alla scienza. La sua struttura complessa - frutto dell’elaborazione di una mente intelligente - è finalizzata a sconfiggere un’altra intelligenza, quella di chi si avventura dentro il labirinto. Al suo interno la ragione non è più in grado di risolvere da sola il problema e la soluzione deve essere tentata istintivamente, ad ogni nuova svolta, affidandosi all’intuito e alla buona sorte, allo stratagemma e all’astuzia. Il concetto di labirinto racchiude così in sé una duplice, se non addirittura contraddittoria, valenza simbolica. Da un lato simboleggia il trionfo della ragione, la costruzione razionale perfetta costituita da un unico modulo compositivo elementare ripetuto potenzialmente all’infinito; dall’altro lato allude inevitabilmente alla sconfitta della ragione stessa e delle sue armi dialettiche che si rivelano inefficaci a districarsi in un contesto in cui la parzialità della visione, la completa ignoranza della propria posizione nello spazio e la conseguente incapacità di orientarsi impediscono l’elaborazione di una strategia razionale e vincente. Il labirinto è quindi il luogo costruito dalla ragione per annientare e mettere in scacco se stessa; è lo spazio simbolico, l’arena in cui si consuma il dramma della ragione che per salvarsi è costretta a negare se stessa, a ridursi furbizia e puro istinto animale. Nel centro del labirinto - che simbolicamente è anche il Centro del mondo, lo spazio sacro dove convergono tutte le serie infinite di piani spaziali e temporali - si confrontano i due volti della natura umana: quello solare, “umano”, razionale e creativo contro quello oscuro, bestiale, irrazionale e distruttivo. Il labirinto, con la sua simbologia e la sua intricata struttura che ricorda le impenetrabili circonvoluzioni del cervello, rinvia così inevitabilmente ai grovigli della psiche, ai mostri inquietanti che si nascondono al suo interno, agli enigmi che celano verità terribili e spaventose...e, proprio come in un labirintico gioco di specchi o in una infinita serie di scatole cinesi, racconta di un autore in crisi creativa e di un’opera che non riesce a venire alla luce. Un indovinello-labirinto che sembra avvertirci ancora una volta che non c’è nessuna verità da cercare, nessun senso o soluzione da trovare, nessun simbolico centro da raggiungere. Nel centro del labirinto c’è solo posto per la follia, il ghiaccio della morte, l’immobilità perfetta del non-essere. E l’enigma rimane…
C'è tanta solitudine in quell'oro.
La luna delle notti non è la luna
che vide il primo Adamo. I lunghi secoli
della veglia umana l'hanno colmata
di antico pianto. Guardala. E' il tuo specchio.
«Sotto alberi inglesi meditai su quel labirinto perduto: lo immaginai inviolato e perfetto sulla cima segreta d’una montagna. Pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso e crescente che abbracciasse il passato e l’avvenire, e che implicasse in qualche modo anche gli astri»
(J.L. Borges – Il giardino dei sentieri che si biforcano) labirinto (dal greco labýrinthos) si riferisce al mitico palazzo costruito a Creta per tenervi segregato il Minotauro, il leggendario mostro dalla duplice natura (umana e ferina) poi ucciso dalla scure (làbrys in greco) di Teseo e dalla quale avrebbe poi preso il nome. L’etimologia della parola labirinto deriverebbe quindi dalla stessa radice della parola che indicava l’ascia a due lame, simbolo del potere reale a Creta. Nelle culture più diverse il labirinto è un modello iniziatico legato all’idea della morte e soprattutto all’idea del passaggio a un nuovo stato. Superare il labirinto, raggiungerne il centro e poi trovare la via d’uscita, indica allegoricamente il passaggio a un’altra dimensione, e per questo veniva impiegato anche come modello magico nelle dottrine esoteriche e misteriche. Il labirinto in generale può essere visto come metafora della ricostituzione dell’ordine perduto, e di conseguenza come metafora del pensiero umano, della psiche e della della sua struttura, per l’appunto, labirintica. Il labirinto è anche un simbolo del mondo, i cui schemi e la cui logica sono oscuri e incomprensibili all’uomo, ma chiari a colui che ne è l’architetto e l’artefice, e come tale esso è fonte di stupore e perplessità, quel genere di stupore (thaumàzein in greco) che secondo Aristotele è stato la causa principale e fondamentale della nascita della filosofia («Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia», Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 b.) Il labirinto è il luogo in cui la soluzione deve essere tentata ad ogni svolta, senza occhi e senza memoria: è il simbolo della ricerca istintiva, anteriore alla ragione e alla scienza. La sua struttura complessa - frutto dell’elaborazione di una mente intelligente - è finalizzata a sconfiggere un’altra intelligenza, quella di chi si avventura dentro il labirinto. Al suo interno la ragione non è più in grado di risolvere da sola il problema e la soluzione deve essere tentata istintivamente, ad ogni nuova svolta, affidandosi all’intuito e alla buona sorte, allo stratagemma e all’astuzia. Il concetto di labirinto racchiude così in sé una duplice, se non addirittura contraddittoria, valenza simbolica. Da un lato simboleggia il trionfo della ragione, la costruzione razionale perfetta costituita da un unico modulo compositivo elementare ripetuto potenzialmente all’infinito; dall’altro lato allude inevitabilmente alla sconfitta della ragione stessa e delle sue armi dialettiche che si rivelano inefficaci a districarsi in un contesto in cui la parzialità della visione, la completa ignoranza della propria posizione nello spazio e la conseguente incapacità di orientarsi impediscono l’elaborazione di una strategia razionale e vincente. Il labirinto è quindi il luogo costruito dalla ragione per annientare e mettere in scacco se stessa; è lo spazio simbolico, l’arena in cui si consuma il dramma della ragione che per salvarsi è costretta a negare se stessa, a ridursi furbizia e puro istinto animale. Nel centro del labirinto - che simbolicamente è anche il Centro del mondo, lo spazio sacro dove convergono tutte le serie infinite di piani spaziali e temporali - si confrontano i due volti della natura umana: quello solare, “umano”, razionale e creativo contro quello oscuro, bestiale, irrazionale e distruttivo. Il labirinto, con la sua simbologia e la sua intricata struttura che ricorda le impenetrabili circonvoluzioni del cervello, rinvia così inevitabilmente ai grovigli della psiche, ai mostri inquietanti che si nascondono al suo interno, agli enigmi che celano verità terribili e spaventose...e, proprio come in un labirintico gioco di specchi o in una infinita serie di scatole cinesi, racconta di un autore in crisi creativa e di un’opera che non riesce a venire alla luce. Un indovinello-labirinto che sembra avvertirci ancora una volta che non c’è nessuna verità da cercare, nessun senso o soluzione da trovare, nessun simbolico centro da raggiungere. Nel centro del labirinto c’è solo posto per la follia, il ghiaccio della morte, l’immobilità perfetta del non-essere. E l’enigma rimane…
“non vi è nulla di più surreale della realtà”
e l’io consapevole ama ridere un casino!
vedi qui le poesie di pessoa: http://d.p.forumcommunity.net/?t=26000075
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