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venerdì 25 aprile 2014

omaggio al mio più compianto concittadino


faber

Fabrizio Cristiano De André nacque a Genova Pegli, in Via De Nicolay 12, il 18 febbraio 1940. Leggenda vuole che sul grammofono di casa, per alleviare le doglie della moglie, il professor Giuseppe De André mettesse il Valzer campestre di Gino Marinuzzi, da cui anni dopo Fabrizio avrebbe tratto spunto per uno dei suoi primi brani, Valzer per un amore.
A causa della guerra, che aveva indotto molta gente a sfollare, trascorse i primissimi anni della sua vita nella casa di campagna di Revignano d’Asti, in compagnia della madre (Luisa Amerio), del fratello Mauro e delle due nonne, mentre il padre fu costretto alla macchia per sfuggire ai fascisti che lo braccavano.
Quel breve periodo fu sicuramente uno dei più importanti e formativi per lui: per il tipo di vita che condusse, libero e spensierato, e per alcuni incontri determinanti, come quello col fattore Emilio Fassio, che gli trasmise l’amore per gli animali e per un ambiente che Fabrizio ricercherà per tutta la vita. L’infanzia a Revignano d’Asti e i personaggi che la popolarono – come la piccola Nina Manfieri (cui molti anni dopo dedicherà la canzone Ho visto Nina volare) o i contadini Emilio e Felicina Fassio – rimarranno fonte di rimpianto e di ispirazione fino alla sua ultimissima produzione.
Come ha raccontato la madre, “Fabrizio era felicissimo di correre per i campi, di seguire i contadini nel lavoro, di andare a caccia con loro… Finita la guerra eravamo tutti felici di ritornare in città. Lui era disperato… Aveva cinque anni. Fu una dura sofferenza per lui, abituato com’era a correre libero per i prati… Fin da piccolo non sopportava di veder la gente soffrire. Quando uscivamo insieme, ogni volta che incontravamo un mendicante mi obbligava a fermarmi e a dargli dei soldi” [In queste ultime parole emerge la spontaneità, direi quasi l'innatezza della dimensione solidaristica del futuro anarchico].
Al termine del conflitto, la famiglia ritornò a Genova stabilendosi nella nuova casa di Via Trieste 8. Nell’ottobre del 1946 Fabrizio fu iscritto alla prima elementare presso l’Istituto delle suore Marcelline, (istituto che ho frequentato sino all'ultimo anno delle superiori parecchi anni dopo di lui, mentre all'asilo dalle suore 'pietrine' ci andai solo per un giorno..ma incontrai faber all'istituto Assuntion di via pertinace, in occasione di una festa organizzata con gli studenti dell'Arecco e lui, giovane cantante, venne a farci uno spettacolo tutto per noi...non potrò dimenticare mai quella sera ricordo che allora  aveva una porche nera e che ci cantò alcune canzoni francesi di... breil e brassens le sue prime erano censurate in Italia e, dalle suore, non poteva certo cantare certo  're carlo'  ma ci cantò 'fila la lana'... ) che egli – manifestando fin da allora l’insofferenza agli spazi ristretti e alla disciplina, ma anche una vena ironica che saprà spesso trasformarsi in autoironia – ribattezzò “Porcelline”. Vani essendo risultati i tentativi delle monache di indurlo a studiare, i suoi decisero di iscriverlo per l’anno successivo a una scuola statale: Fabrizio iniziò così la seconda elementare alla scuola Armando Diaz, in via Cesare Battisti 5.
Nell’agosto 1948, a Pocol, sopra Cortina, incontrò per la prima volta Paolo Villaggio, allora sedicenne. I due simpatizzarono subito, ma i sette anni di differenza non permisero allora che quella simpatia sfociasse in una vera e propria amicizia. Paolo e Fabrizio si persero così di vista per ritrovarsi solo una decina di anni dopo sulle tavole di un palcoscenico; e da quel momento divennero inseparabili.
Nell’estate del 1950, terminata la quarta elementare, Fabrizio trascorse l’ultima vacanza a Revignano. Il professore aveva infatti deciso di vendere il cascinale e di acquistare un appartamento ad Asti. Fabrizio soffrì moltissimo, perché a quel luogo erano legati i suoi più bei ricordi d’infanzia. Dentro di sé decise che, una volta diventato grande, avrebbe ricomprato il cascinale e comunque non avrebbe abbandonato quei posti che tanto amava. Quel desiderio lo avrebbe accompagnato negli anni a venire e, agli amici che aveva (e che avrebbe avuto) non mancò di confidare il desiderio di un’azienda agricola tutta per sé. Anni dopo realizzerà questo sogno, anche se al di là del suo mare, in Sardegna.
Nell’ottobre del 1951 Fabrizio iniziò le medie alla Giovanni Pascoli, nello stesso complesso scolastico che ospitava le elementari Armando Diaz. Ma, attratto com’era dal gioco e dalla vita di strada, non mostrava interesse allo studio, tanto da rimediare una bocciatura in seconda. Il padre, infuriato, decise allora di affidarlo ai rigidissimi gesuiti della Arecco, ma un deprecabile episodio con un padre “buliccio” (omosessuale) lo indusse poi a fargli terminare le medie nell’Istituto Palazzi, di cui era proprietario.
“Dopo le medie – ha raccontato ancora la madre – si iscrisse al liceo classico Colombo (dove mi è capitato di lavorare molti anni dopo e trovare i tesserini verdi dove venivano registrati gli anni di iscrizione, suo e di Luigi Tenco) , che frequentò regolarmente fino alla licenza. Nelle materie letterarie andava abbastanza bene, anche se non studiava molto, ma in quelle scientifiche faceva fatica. Comunque non faceva proprio nulla per prendersi un bel voto; gli bastava la sufficienza… La sua passione era sempre la musica. Aveva avuto in regalo una chitarra e non la lasciava mai, neppure quando andava in bagno… Incominciò a scrivere qualche canzone, a cantarla”.
Proprio durante gli anni del liceo avvenne un’esperienza determinante per De Andrè: nella primavera del 1956, infatti, suo padre portò dalla Francia due 78 giri di Georges Brassens. Dall’incontro col grande cantautore francese, Fabrizio ricavò stimoli per la lettura di autori anarchici che non abbandonerà più: Bakunin, Malatesta, Kropotkin, Stirner (tutti autori che divennero i miei più fidati  compagni di adolescenza oltre a Tolstoi e all'adorato Edgar Allan Poe) Inoltre, nel mondo cantato da Brassens, egli ritrovava quei personaggi così umili e veri che vivevano nei caruggi della sua città e che troveranno spazio, comprensione e dignità nelle sue canzoni.
De André si iscrisse anche all’università, ma le sue scelte confermarono la scarsa propensione agli studi “ufficiali”: frequentò medicina, poi lettere e infine giurisprudenza, senza laurearsi. Le sue giornate trascorrevano infatti tra musica, letture (Villon e Dostoevskij, sempre Bakunin e Stirner) e, soprattutto, serate in compagnia degli amici Luigi Tenco, Gino Paoli, Paolo Villaggio e altri. Affermerà in seguito, ricordando quel tempo: “Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l’illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane”.
Intanto, nel 1958, aveva composto Nuvole barocche e E fu la notte, brani modesti scritti in collaborazione, che anni dopo Fabrizio definirà come “due peccati di gioventù”. E infatti, già nell’estate del ‘60, scrisse insieme a Clelia Petracchi quella che ha sempre considerato la sua prima vera canzone, La ballata del Miche’, che rimane, se non una delle più belle, una delle più note e, in considerazione dei soli vent’anni dell’autore, una delle più significative.
Nel luglio 1962 sposò Enrica Rignon (detta Puny) e il 29 dicembre dello stesso anno nacque il figlio Cristiano. Fabrizio aveva appena ventitue anni, una famiglia e, più che un lavoro, un hobby poco redditizio (fu proprio dopo il 1963 che andai in collegio e che conobbi Faber che non era ancora una star!)  Ma una svolta nella sua carriera si verificò nel 1965, allorché Mina interpretò una sua composizione, La canzone di Marinella, che divenne immediatamente un best seller e lo impose all’attenzione generale. “Mi arrivano seicentomila lire in un semestre (per quegli anni una somma davvero considerevole) – dichiarò Fabrizio in un’intervista. – Allora ho preso armi e bagagli, moglie, figlio e suocero e ci siamo trasferiti in Corso Italia, che era un quartiere chic di Genova. Quindi chiusa la storia con la laurea e con tutto il resto. Da quel momento, cominciai a pensare che forse le canzoni m’avrebbero reso di più e, soprattutto, divertito di più”.
Sulla spinta di questo successo, nel 1966 vide la luce l’LP d’esordio: Tutto Fabrizio De André, contenente alcuni dei migliori brani scritti fino a quel momento, tra cui La canzone di Marinella, La guerra di Piero, Il testamento, La ballata del Miché, La canzone dell’amore perduto, La città vecchia, Carlo Martello.
Al 33 giri fece seguito nel 1967 Volume I, in cui spiccano Via del Campo, Bocca di rosa e Preghiera in gennaio: le prime due dedicate, con profondo senso di solidarietà e comprensione, a due figure di prostitute; la terza composta in occasione e a ricordo della tragica morte dell’amico Luigi Tenco, suicidatosi il 27 gennaio a Sanremo.
Con questo album si aprì la stagione più prolifica della carriera di De André; a breve distanza uno dall’altro uscirono infatti: Tutti morimmo a stento (1968), Volume III (1968), La buona novella (1970), Non al denaro non all’amore né al cielo (1971), Storia di un impiegato (1973), Canzoni (1974) e Volume VIII (1975).
Nel 1975 De André, che aveva sempre rifiutato il faccia a faccia col pubblico, esordì dal vivo nel locale simbolo della Versilia, “La Bussola”. Nonostante i suoi timori (sembra che all’ultimo momento non volesse più salire sul palco), il concerto fu un vero e proprio successo.
Coi soldi guadagnati acquistò un’azienda agricola nelle vicinanze di Tempio Pausania, in Sardegna. E nel 1977, dall’unione con Dori Ghezzi (la cantante milanese alla quale si era legato dal 1974, dopo la separazione dalla prima moglie), nacque Luisa Vittoria, detta Luvi. Subito dopo uscirono gli album Rimini (album) (1978), scritto in collaborazione con Massimo Bubola, e In concerto con la PFM (1979).
La sera del 27 agosto 1979 Dori e Fabrizio furono sequestrati e rimasero prigionieri dell’Anonima per quattro mesi. La drammatica esperienza non cancellò tuttavia l’amore di Fabrizio per la sua terra d’adozione; tant’è vero che non vi è traccia di rancore nelle dichiarazioni da lui rilasciate dopo la liberazione: “I rapitori – disse – erano gentilissimi, quasi materni… Ricordo che uno di loro una sera aveva bevuto un po’ di grappa di troppo e si lasciò andare fino a dire che non godeva certo della nostra situazione”.
Il 29 ottobre 1980, all’età di sessant’anni, moriva l’amato Brassens, ucciso da un tumore. De André ebbe a dire un anno dopo, durante un’intervista concessa al quotidiano “La Stampa”: “Pur avendone avuto la possibilità, non ho mai voluto conoscerlo personalmente, per evitare che diventasse una persona e magari scoprirlo anche antipatico. Per me è stato un mito, una guida, un esempio; è grazie a lui che mi sono avvicinato all’anarchismo. Egli rappresentava il superamento dei valori piccolo-borghesi e insegnò anche ai borghesi certe forme di rispetto ai quali non erano abituati. I suoi testi si possono leggere anche senza la musica. Per me è come leggere Socrate: ti insegna come comportarsi o, al minimo, come non comportarsi”.
Dopo un periodo di riposo, il cantautore tornò all’attività con un album, Fabrizio De André (Indiano) (detto così per via del disegno di copertina), che contiene un brano, Hotel Supramonte, che è la rievocazione dei traumi e delle incertezze patiti durante il rapimento.
Nel 1984 uscì Creuza de mä (album), da molti critici considerato il suo capolavoro. Il disco, che gli valse numerosi premi e riconoscimenti e che venne presentato al pubblico nel corso di una memorabile tournée col figlio Cristiano e con Mauro Pagani (della PFM), evoca suoni, profumi, voci, odori e sapori di tutto il Mediterraneo, ma è soprattutto – come lo ha definito Luigi Viva – “un canto d’amore a Genova”.
L’anno successivo Fabrizio fu colpito da un grave lutto: all’età di 72 anni moriva infatti suo padre, uomo influente e assai noto a Genova. In un’intervista all’amico Cesare G. Romana dirà: “Il problema non è che gli volevo bene, perché questo non finisce. Il problema è che lui ne voleva a me”.
Pochi anni dopo, nell’estate del 1989, morì il fratello Mauro, colpito da aneurisma. Aveva appena 54 anni, e Fabrizio fu naturalmente scosso dalla terribile notizia: “Alla morte di mio padre, almeno, eravamo preparati: era anziano. Ma Mauro…”.
Ci furono, però, anche momenti lieti, come il matrimonio con Dori Ghezzi, celebrato nel dicembre del 1989 dopo quindici anni di convivenza; e ci fu anche il matrimonio di Cristiano.
Nel 1990, dopo sei anni di silenzio, uscì il nuovo album Le Nuvole, sicuramente il disco più apertamente politico di tutta la produzione del cantautore, che tocca il suo apice con La domenica delle salme.
Nel 1991, a distanza di sette anni dal suo ultimo tour, Fabrizio tornò a calcare il palcoscenico con rinnovato successo, traendone l’LP dal vivo Fabrizio De André 1991 – Concerti.
Nel 1992, anno delle Colombiane, Genova festeggiò con un’esposizione e lavori per svariati miliardi i cinquecento anni della scoperta dell’America: De André venne invitato a partecipare e ad esibirsi con Bob Dylan, ma rifiutò il benché minimo coinvolgimento, ricordando anzi lo sterminio degli Indiani d’America.
Il 3 gennaio 1995, all’età di ottantatré anni, venne a mancare la madre Luisa, unica della famiglia a morire di vecchiaia.
Nel 1996 uscì Anime salve, scritto in collaborazione con Ivano Fossati, che ruota intorno al duplice tema delle minoranze isolate e della solitudine. Nello stesso anno pubblica presso Einaudi Un destino ridicolo, romanzo scritto a quattro mani con Alessandro Gennari.
Nel 1997 fu pubblicato Mi innamoravo di tutto, raccolta di vecchi brani scelti dall’autore, fra cui spiccano la versione originale di Bocca di rosa e La canzone di Marinella cantata in duetto con Mina.
Nell’estate del 1998 fu costretto a interrompere il tour seguito ad Anime salve. La tac, eseguita il 25 agosto, non lasciava speranze: tumore ai polmoni.
Appena pochi mesi dopo, alle ore 2.15 di notte dell’11 gennaio 1999, Fabrizio moriva presso l’Istituto Tumori di Milano, dov’era ricoverato, assistito sino all’ultimo momento dai suoi cari.
Una folla commossa, di oltre diecimila persone, ha seguito i suoi funerali, svoltisi il 13 gennaio nella Basilica di Carignano, a Genova. Su quel mare di umanità svettavano la bandiera del Genoa (la sua squadra del cuore) e quella anarchica (a testimonianza e ricordo del suo “credo” politico, o meglio del suo “modo d’essere”). Al cimitero di Staglieno, nella cappella di famiglia, “abita eterno”.



«Ho visto Nina volare / tra le corde dell’altalena». L’altalena di Nina aveva corde rozze e un legnaccio qualunque per sedersi, «così andavamo tutti su quella di Mauro e Fabrizio De André, sfollati qui da Genova nel ‘42. L’aveva fatta piazzare sotto il portico della cascina appena comprata accanto alla nostra il papà, Giuseppe, il professore, uomo austero e tenero. La loro aveva le funi rosse e un seggiolino vero».

 Nina Manfieri - coetanea di Faber, marito e due figli, che tuttora abita a Revignano - dopo aver letto il denso Libro del mondo (Giunti editore) di Walter Pistarini («le storie dietro le canzoni di Fabrizio De André»). L’informatico Pistarini, grazie anche al suo sito «viadelcampo.com», indaga canzone per canzone ciò che sta alle spalle di parole e musiche da Nuvole barocche a Anime salve, il cd che contiene Ho visto Nina volare, della quale analizza i versi, compreso quel «mastica e sputa» sgorgato in un viaggio a Matera, senza però svelare l’ispiratrice. Ma visione e desiderio che faranno temere l’ira paterna hanno anche un altra poco conosciuta nascita. Attraverso analisi letterarie, ricerche d’archivio, dichiarazioni di Fabrizio o collaboratori, il libro svela una doppia cultura di De André: la strada, l’emozione di vita assieme al colossale bagaglio della letteratura. Si racconta un Raffaele Cutolo orgoglioso d’una canzone per lui, invece l’autore pensava piuttosto al personaggio «che spiega cosa pensare» negli «Alunni del tempo» di Giuseppe Marotta, mentre il nome Don Raffaé viene dal «Sindaco» di Eduardo De Filippo. Un aneddoto personale: nel carcere di Chiavari il gruppo Progetto Korakhané non inserì nella scaletta del concerto Don Raffaé per evitare tensioni agenti-detenuti. Venne un detenuto: «Quando la cantate?». Lo seguì un agente: «La fate, vero?».

Oltre a Villon, trovi Aristofane (Le nuvole), Jacopone da Todi, Rimbaud, Pavese, Evtusenko, Kerouac, Steinbeck, Dylan Thomas, Pasolini, e ancora e ancora, i vangeli apocrifi ma pure il Corano, il cinema con Bette Davis o Fellini, Soldato blu e Piccolo grande uomo.
«Ti servo da Bignami?», mi disse Fabrizio a proposito di Non al denaro, non all’amore né al cielo, tratto da Edgar Lee Masters. Altro che Bignami, Il libro del mondo svela una raffinata voracità culturale e di vita: c’è chi ha scovato la prostitua della Canzone di Marinella, chi il travestito di Via del campo. Dietro la Guerra dei Piero si cita suo zio Francesco, fratello della mamma, Luisa, chiuso in campo di concentramento tedesco. Allora torniamo a casa di Nina, che ha conosciuto Francesco: «Era una persona buona, allegra. Tornò dolce ma era un altro». Figura del paese in guerra che si portava via soldati: «Anche Bicio e Mauro giocavano con i soldatini, con me bambina tiravamo ai birilli. E poi l’altalena: per un po’ mi spingeva lui, come nella canzone. Ma era un bel pigro, era più quando si faceva spingere lui. A mio modo ho visto Fabrizio volare». Quando si litigava era tosto: «Mordeva. Un sabato arrivarono suo padre e la mamma, bellissima. Come sempre: dov’è Nina? che ti sei fatta lì? Mi scappò: Bicio mi ha morso. Quell’uomo serio e gentile disse a Fabrizio: con te parlo dopo. Chiamò le due nonne, Rita e Margherita, e le gelò: vi lascio i bambini perché ci badiate, è anche colpa vostra. Finì che litigarono fra loro le due signore».

Morsi a parte, era tenero. Suo fratello Mauro passava il tempo a studiare, lui suonava il violino, doveva impararlo, ma non aveva voglia: «Andava a cercare la salamandra alla fontana, a raccogliere i bossoli alla stazione di Vaglierano. E inseguiva gli animali, come Coda di lupo. Saliva sul carretto dell’asino. Ricordo il parto di una vacca. I nostri genitori, contadini, ci tenevano lontani. Invece suo padre venne a prenderlo e lo portò alla stalla: vieni a vedere la vita che nasce».
E quella che se ne andava: «Passavano cacciabombardieri, i Pippo, notturni, a volo radente, mitragliavano ogni luce, con cartoni si oscuravano finestre dietro le quali c’era una candela. Li ho rivisto Fabrizio volare: Pippo era basso sull’aia, uno spostamento d’aria micidiale. Lui fu sollevato e buttato a terra svenuto. Corsero le nonne e per rianimarlo gli diedero un bicchiere di cognac». Par di sentirlo ridere: per forza l’ho vista volare.

giovedì 24 aprile 2014

abbi il coraggio di amare





la sola occasione persa nella vita è quella che ci vede reprimere sentimenti sinceri e profondi in nome di un equilibrio relativo. basta un secondo di vita per far vacillare laconiche e stridule certezze. la verità è nel cuore e sulla pelle. non è puro istinto e non passa per appagare una fame del momento. è il benessere del filo sottile che ci collega a un'altra anima per misteriose vie. dentro lo sentiamo, lo sappiamo. eppure in nome di una vaga razionalità diciamo 'no' a ciò che ci nutre e ci fa crescere, tenendoci saldamente attaccati ad una copertina da infanti. è responsabilità? forse inganno, auto-inganno. forse paura di volare. amare è una responsabilità, quando lo si fa da adulti, ma può essere anche la porta della felicità

Zuleika Fusco

martedì 8 aprile 2014

Primo giorno d'aprile



tra un crepuscolo e un'alba
-Imperatore d'un ritorno-
c'infiamma
lo scherzo di questo
primo
giorno d'aprile


segreta via che a me ti conduce
svela la paterna mano antica
che si burla ancora
al vento
di questa nostra
ventennale fatica


nel reciproco spo(g)liarsi
si vanta
l'armonia del cosmo
e si concentra
nell'unico respiro


rosso
sangue di piccione
divampa nel petto
memore d'una romana
luna che discioglie
la verde, rubea passione
specchiandosi dentro un caffè
di zenzero e limone.