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venerdì 19 agosto 2016

"Che tu sia per me il coltello"


è il titolo del libro di David Grossman
 "Nascondi a Maya il mondo della tua immaginazione e a me quello della tua realtà. Come fai a destreggiarti fra tutte quelle porte che si aprono e si chiudono? E qual è il luogo in cui vive veramente, una vita completa?” 
Questo tagliare, questo scalfire il rivestimento, la corazza, il carapace invisibile che ci portiamo addosso e riuscire a mostrarci finalmente nudi ma solo a distanza è l'espressione di quanto sia difficile affrontare l'interazione,  il rapporto umano con gli altri e, soprattutto, con noi stessi.
Che tu sia per me il coltello” è una famosa citazione di Kafka da cui Grossman estrapola il titolo di questo incantevole romanzo epistolare. Folgorato da un suo gesto apparente insignificante, Yair individua Myriam tra la folla “Ma sei tu quella che ho visto stringersi nelle braccia con un cauto sorriso”, certo che lei possa accettare un rapporto particolarmente intimo ma così unico e inusuale... l’esigenza di raccontarsi scrivendo vivendo in lontananza una lacerante vicinanza di anime... “Non che la mia vita sia così interessante ma mi piacerebbe darti qualcosa che altrimenti non saprei a chi dare”….”Non voglio incontrarti e interferire nella tua vita…” Con la sola forza dell’immaginazione Yair riesce a toccarla a incontrarla e sentirsi appagato anche solo grazie al fascino delle parole che assumono sfumature irreali e seduttive. Il tema è affine a quello scritto da Kafka in “Lettere a Milena”, da cui Grossman si è ispirato non solo per il titolo. In “Lettere a Milena” i protagonisti si incontrano più volte, la loro storia d’amore fondava più radici nella realtà, la storia di Yair e Myriam è fatta di sogno e immaginazione. Un rapporto a scadenza, segreto e intimo. “Questo incrociarsi di lettere deve cessare, Milena, ci fanno impazzire, non si ricorda che cosa si è scritto, a che cosa si riceve risposta e, comunque sia, si trema sempre”……”Myriam, questa è l’ultima lettera ….non ti scriverò più…. Se non fossi un tale idiota avrei potuto essere felice con te, non importa come, il mondo ce l’avrebbe permesso”.  A volte in una relazione epistolare o a distanza ci si può conoscere in maniera perfino più profonda, mettendo in luce frammenti più intimi dell’anima, di quanto potrebbe rivelare un incontro reale. E del resto non usiamo anche noi la comunicazione scritta attraverso l’uso di sms e chat? E a quanti di noi è capitato di sentire affinità d'anima con chi è al di là dello schermo e che non conosciamo di persona ma ci sentiamo profondamente uniti e legati da uno speciale affetto perché abbiamo condiviso intimità?
Ed ecco qui di seguito la storia di Kafka e Milena:

 

« E forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso » questo scriveva Franz Kafka a Milena Jesenská
che e troviamo appunto nel suo libro "lettere a Milena"
Il loro fu un amore intenso sebbene durato solo tre anni e fu grazie a lei se scrisse La Metamorfosi.

Fu Milena che capì la sofferenza e la grandezza di Kafka, che gli diede le poche ore serene, che lo aiutò a comprendersi: «Milena, tu sei per me il coltello con il quale frugo dentro me stesso». Quando la conobbe, aveva trentotto anni e «i capelli bianchi delle vecchie notti»; lei era sposata, scriveva sui giornali («Era bella come un angelo» mi ha detto un' amica), era molto giovane, ventitré o venticinque anni; lui si stava consumando, lei era fresca e coraggiosa.

L’amore, usava l’amore, quell’amore che, una volta raggiunto un certo grado di intesa e di condivisione, necessita di mezzi di espressione così minimi, così fiacchi, da essere del tutto incomprensibili a un ascoltatore esterno. Franz e Milena si capivano perché pensavano alla stessa cosa, sempre alla stessa cosa, e pensavano alla stessa cosa perché amavano e, amandosi, erano l’uno e l’altra insieme. « Ieri ho sognato di te. Non ricordo più quasi i singoli fatti, so soltanto che di continuo ci trasformavamo l’uno nell’altro, io ero tu, tu eri io ».

Franz definisce con un’immagine straordinaria il suo rapporto con Milena:
« Credo, Milena, che noi due abbiamo una particolarità in comune: siamo tanto timidi e ansiosi, quasi ogni lettera è diversa, quasi ciascuna si spaventa della precedente, e, più ancora, della risposta. Lei non lo è per natura, lo si vede facilmente, e io, forse, nemmeno io lo sono per natura, ma ciò è quasi diventato natura, e si dilegua soltanto nella disperazione, tutt’al più nell’ira, e, da non dimenticare, nell’angoscia.
Talora ho l’impressione che abbiamo una camera con due porte, l’una di fronte all’altra, e ognuno stringe la maniglia di una porta e basta un batter di ciglia dell’uno perché l’altro sia già dietro la sua porta e basta che il primo dica una sola parola, il secondo ha già certamente chiuso la porta dietro di sé e non si fa più vedere. Egli riaprirà, sì, la porta, perché si tratta di una camera che forse non si può lasciare. Se non fosse esattamente come il secondo, il primo starebbe tranquillo, preferirebbe, in apparenza, non guardare neanche verso il secondo, metterebbe lentamente in ordine la camera, quasi fosse una camera come qualunque altra, ma invece fa esattamente la stessa cosa presso la sua porta, talvolta persino tutti e due sono di là dalle porte e la bella camera è vuota. »

Il perché di queste oscillazioni tra il desiderio e il pudore va cercato nella personalità di Kafka. Franz è afflitto da un senso di colpa atavico, quasi razziale (l’ebreo che è in lui ruggisce a ogni cantone), che lo previene nei rapporti con l’altro, costringendolo a interagire a un livello sempre di inferiorità e di lordura. « Milena, non si tratta di questo, tu non sei per me una signora, sei una fanciulla, non ho mai visto nessuna che fosse tanto fanciulla, non oserò porgerti la mano, fanciulla, la mano sudicia, convulsa, unghiuta, incerta e tremula, cocente e fredda ».
Milena, nella sua generosità di donna, vede, pazienta e sa. E soffre.
L’affievolirsi e poi lo spegnersi del carteggio è una naturale conseguenza derivata dalle premesse. Nella tortura auto-inflittasi e inflitta a Milena, Franz è un esecutore implacabile, logico, spietato, mai una deviazione dal regolamento. ‘Ho deciso che non posso essere felice? Così sia. Non posso essere felice neanche se la felicità mi sta a tre centimetri dalle dita. Ho deciso che felice non posso esserlo, se lo fossi tradirei me stesso, se tradisco me stesso sono perduto per sempre. E allora perché venir meno alla coerenza allungando le dita? Resti pure dove sta, questa felicità. Io non me la merito.’
...domenica saremo insieme, cinque, sei ore, troppo poco per parlare, abbastanza per tacere, per tenerci per mano, per guardarci negli occhi.” Franz e Milena si incontrarono più volte, sia nel sogno sia nella realtà. Cosa accadde durante questi incontri al lettore è lasciato soltanto immaginare. Se ne parla in più missive, ma mai in modo esplicito.
«O il mondo è ben piccolo, o noi siamo gigantesche, in ogni caso lo riempiamo» scriveva Franz a Milena, e ognuno cerca di riempire, come può, il vuoto che c' è dentro di noi.
Kafka diceva di sé: «Sono brutto, mal vestito», e anche: «Sono spiritualmente incapace di sposarmi». Anche Milena rimase un' ombra nei suoi sogni impossibili e disperati. «Cara signora Milena», comincia l' ultima lettera, «per favore non mi scriva più». Non c' è neppure un' ora per il dialogo, bisogna che l' uomo Kafka si prepari all' addio. È la fine. Ma aveva detto una volta: «Non prendo commiato. Come potrei farlo se tu sei viva?».  "Tu mi appartieni, anche se non dovessi vederti mai più"

Scriveva Kafka:“ Oggi sono arrivate due lettere. S' intende che hai ragione, Milena, per la vergogna delle mie lettere quasi non ho il coraggio di aprire le tue risposte . Le mie lettere però sono vere o almeno sulla via della verità, che cosa farei mai davanti alle tue risposte se le mie lettere fossero mentite? Facile la risposta: impazzirei. Questo esser veritiero non è dunque un grandissimo merito, è anzi ben poco, io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto. In fondo non è forse altro che quella paura, della quale si è parlato tante volte, ma paura estesa a tutte le cose, paura delle cose più grandi come delle più piccole, paura, convulsa paura di pronunciare una parola. E' vero che questa paura non è forse soltanto paura , ma anche nostalgia di qualche cosa, e ciò più di tutto ciò che suscita paura.
“O mnè rozbil”*, ciò è qualcosa di perfettamente assurdo. Io solo ho colpa e questa consiste in troppa poca verità da parte mia, ancora troppa poca verità, ancora menzogna nella maggior parte dei casi, menzogna per paura di me e per paura degli uomini! Questa brocca era già infranta molto tempo prima che andasse alla fontana.
E ora chiudi le labbra per rimanere soltanto un poco nella verità. La menzogna è orribile, non esistono peggiori torture spirituali. Perciò ti prego: lascia ch'io taccia, in lettere adesso , in parole a Vienna.
Tu scrivi: o mnè rozbil* , ma vedo soltanto che ti tormenti, che, come scrivi, trovi pace soltanto nelle vie, mentre io sto qui in veste da camera e pantofole, nella stanza riscaldata, tranquillo quel tanto che mi concede la mia “molla d'orologio” (perché devo ben “indicare il tempo”)…..
Potrò segnalare il giorno della mia partenza solo………
“O mnè rozbil”* ancora ci ripenso, è altrettanto inesatto come il pensiero del possibile contrario.

*Egli si spezzato contro di me

"E' già tanto tempo che non le scrivo, signora Milena, e anche oggi Le scrivo soltanto per caso: Veramente non dovrei neanche scusarmi se non scrivo , Lei sa come odio le lettere. Tutta l' infelicità della mia vita - e con ciò non voglio lagnarmi, ma soltanto fare una costatazione universalmente istruttiva - proviene, se vogliamo, dalle lettere o dalla possibilità di scrivere lettere. Gli uomini non mi hanno forse mai ingannato, le lettere invece sempre, e precisamnete non quelle altrui, ma le mie. Nel caso mio si tratta di una disgrazia particolare, della quale non voglio dire altro, ma nello stesso tempo anche di una disgrazia generale.
La facilità di scrivere lettere - considerata puramente in teoria- deve aver portato nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime. E' infatti un contatto fra fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario,ma anche col proprio, che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove l' una conferma l' altra e ad essa può appellarsi per testimonianza. Come sarà nata mai l' idea che gli uomini possano mettersi in contatto fra loro attraverso le lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane..."
«se tu volessi venire da me, se dunque volessi abbandonare tutto il mondo per scendere da me...non dovresti scendere, bensì sorpassare in modo sovrumano te stessa, in alto, oltre te stessa, talmente che dovresti forse dilaniarti, precipitare, scomparire (certo anche io con te). E tutto ciò per arrivare in un punto che non ha niente di allettante"
«ciò che tu sei per me, Milena, per me al di là di tutto il mondo in cui viviamo, non è detto nei quotidiani brandelli di carta che ti ho scritto» ...«decisiva è la mia incapacità di arrivare al di là delle lettere...e decisiva è la voce irresistibilmente forte, come dire la voce tua che mi esorta a stare zitto».
«È all'incirca come quando uno, prima di ogni passeggiata, dovesse non solo lavarsi, pettinarsi ecc - già questo costa fatica - ma siccome prima di ogni passeggiata gli mancano sempre tutte le cose necessarie, dovesse anche cucirsi il vestito, farsi le scarpe, fabbricarsi il cappello, tagliare il bastone e così via».
"Amavo una ragazza, che mi riamava, ma dovetti lasciarla.
Perché?
Non so. Pareva che fosse circondata da un cerchio di armati... appena mi avvicinavo a lei, urtavo nello loro cuspidi, restavo ferito e dovevo indietreggiare...
Non aveva nessuna colpa la ragazza? Credo di no, o meglio, so che non l'aveva. La similitudine precedente è incompleta, in quanto anche io ero circondato da una cerchia di armati che tenevano le lance contro di me... E' rimasta sola quella ragazza?
No un altro è giunto fino a lei, con facilità e senza ostacoli. E io, esausto dai miei sforzi, sono stato a guardare con assoluta indifferenza..."
Questo incrociarsi di lettere deve cessare, Milena, ci fanno impazzire, non si ricorda che cosa si è scritto, a che cosa si riceve risposta e, comunque sia, si trema sempre.”



Amici e amiche così descrivevano Milena: «... fu prodiga di tutto in misura incredibile: della vita, del denaro, dei sentimenti», «. . . non considerava vergogna avere sentimenti profondi. L'amore era per lei un che di chiaro, di ovvio» e Kafka ne completa il ritratto: «Lei è un fuoco vivo come non ne ho mai visti». Prima di Milena ci furono altre donne nella vita di Kafka, ma nessun'altra riuscì a scandagliare così in profondità l'animo di un uomo costretto all'ascesi non per vocazione o come scelta di un atto eroico, bensì per la sua incapacità di scendere a compromessi. Queste Lettere a Milena sono la cronistoria di un amore complesso, profondo e che già prima di iniziare sembrava destinato a finire. Una donna generosa, sino all'eccesso, in amore e in amicizia valori che anteponeva a tutto. Ma soprattutto, una donna coraggiosa che seppe trasformare il forte individualismo dei giorni migliori in responsabilità sociale e politica.

E così Milena descriveva Kafka:
"Era timido, timoroso, dolce e buono, ma scrisse libri crudeli e dolorosi. Era lungimirante, troppo saggio per poter vivere e troppo debole per combattere: ma la sua debolezza era quella degli uomini nobili che non sanno misurarsi con la paura, i malintesi, la mancanza di amore e le menzogne intellettuali. Aveva una conoscenza degli uomini che è data soltanto a quelli che vivono in solitudine, agli uomini dotati di così estrema sensibilità che da una semplice mimica facciale riescono a cogliere, con atto quasi divinatorio, un essere umano nella sua interezza.....
Ci si domanda come mai Frank abbia paura dell'amore e non abbia paura della vita. Io penso invece che non sia così. La vita è per lui qualcosa di totalmente diverso che per tutti gli altri uomini. Soprattutto il denaro, la Borsa, l'ufficio di Cambi, una macchina per scrivere sono per lui cose mistiche (e lo sono realmente, tranne che per noialtri), insomma sono enigmi stranissimi di fronte ai quali lui non ha assolutamente l'atteggiamento che abbiamo noi. Il suo lavoro di impiegato è forse il comune assolvimento di un dovere? Per lui l'ufficio – anche il suo ufficio – è una cosa enigmatica e ammirevole come la locomotiva per un bambino piccolo. Non riesce a capire le cose più semplici di questo mondo. E' stato qualche volta con lui in un ufficio postale? Quando stende un telegramma e scotendo il capo cerca uno sportello che gli piaccia più degli altri, e poi, senza capire assolutamente perché e a che scopo lo fa, passa da uno sportello all'altro finché arriva a quello giusto, e quando paga riceve il resto in spiccioli, conta ciò che ha ricevuto, vede che gli hanno dato una corona di troppo e allora la rende alla signorina dello sportello. Poi s'allontana lentamente, conta ancora una volta e, giunto all'ultimo gradino, s'accorge che la corona restituita spettava a lui. Ebbene, lei rimane perplesso accanto a lui che s'appoggia ora su una gamba ora sull'altra e pensa al da farsi. Tornare indietro è difficile, lassù c'è un mucchio di gente. “Allora lascia correre” dico io. Lui mi guarda atterrito. Come si fa a lasciar correre? Non che gli dispiaccia per la corona. Ma non sta bene. Qui manca una corona. Come si può far finta di niente? E di questo ha continuato a parlare a lungo. Ed è rimasto assai scontento di me. E la stessa cosa si ripete continuamente, in ogni negozio, in ogni ristorante, con ogni mendicante, in diverse varianti. Una volta diede due corone a una mendicante e ne voleva una di resto...”

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