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martedì 4 dicembre 2012

shamir


Nello studio d’antichi documenti, il Dottor Matest M. Agrest, d’origine bielorussa, si è accorto della presenza di uno strumento miracoloso, conosciuto col nome di Shamir, capace di tagliare e incidere pietre durissime.  È probabile che il Tempio di Salomone sia stato edificato con l’ausilio di tale strumento. Il tempio, alla cui costruzione, durata sette anni, contribuirono anche architetti fenici, fu ultimato intorno all’anno 960 a.C. e costruito in blocchi di pietra calcarea. Misurava all’incirca 54 metri in lunghezza, 27 di larghezza e 15 di altezza. L’idea di erigere un tempio a Dio, venne a Davide quando la peste si abbatté sul Regno d’Israele e proprio in quel periodo l’Angelo del Signore apparve sullo spiazzo roccioso del Monte Moria. Finita la peste, Davide volle innalzare un altare a Dio su questo spiazzo. Comperò l’area, cominciò ad accatastare pietre perfettamente squadrate, molto ferro e bronzo. Una volta costruito il tempio, nell’area antistante venne eretto un muro, costruito con tre ordini di pietre squadrate e un’assise di travi di cedro, che lo circondava completamente. Lo spiazzo era destinato ai pellegrini e ai fedeli, mentre la Casa di Dio era accessibile solo ai sacerdoti. A Davide succedette il figlio Salomone che rappresentò il massimo dei Re per gli Ebrei: divenne leggendario per i Giudei proprio durante la loro prigionia a Babilonia. Fu dichiarato mago, giacché dotato di poteri eccezionali, dalle tradizioni folcloristiche medievali. Con il Regno di Salomone e la costruzione del Tempio, Gerusalemme assurse a centro principale della vita d’Israele, raggiungendo l’apice del suo splendore. È da ricordare inoltre che nel corso del lungo periodo delle peregrinazioni compiute dal popolo d’Israele, l’Arca dell’Alleanza fu custodita in una tenda speciale che prese il nome di tabernacolo. Nacque così l’esigenza di dare una degna dimora all’Arca, compito che assolse pure Re Salomone. È probabile che lo Shamir, tra le altre cose, gli avesse procurato tanta fama. Agrest ha formulato l'ipotesi che lo stesso Mosè avesse posseduto uno strumento capace di far cose eccezionali, che però andò perso con la distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme. Tale fatto è riportato al capitolo 9° del trattato Mishnajot. Addirittura nel 5° capitolo del trattato Abot, facente parte sempre del Talmud babilonese, si fa un riferimento chiaro sull’origine non terrestre dello strumento. Si dice poi che Mosè portò lo Shamir nel deserto per costruire l’Efod, il ricco paramento sacro dell’antico culto ebraico destinato ad Aronne, come stabilito nel patto col Signore, cui fa riferimento pure la Bibbia (Esodo 28,9): "…Prenderai poi due pietre di onice e vi scolpirai i nomi dei figli di Israele: sei nomi sopra una pietra e sei nomi sull’altra, in ordine di nascita. Farai incidere le due pietre con i nomi dei figli d’Israele da un incisore in pietra, come si incidono i sigilli, e le incastrerai in castoni d’oro. Porrai le due pietre sopra le spalline dell’Efod…" Nel Talmud Babilonese (Sotah 48,8) l’evento è descritto con più dettagli: "In un primo tempo i nomi erano stati scritti con l’inchiostro, allora fu mostrato loro lo Shamir e furono incisi sulla pietra al posto di quelli scritti con l’inchiostro". Non tutti potevano usare questo strumento, tanto è vero che furono istruiti alcuni incisori. Esodo 36,1: "Besaleel, dunque, e Ooliab e tutti gli uomini esperti, dotati dal Signore d’abilità, d’intelligenza e di saggezza da saper fare tutti i lavori richiesti per l’erezione del Santuario, li eseguiranno secondo tutto quello che il Signore ha comandato…". È da concludere perciò che lo Shamir non fosse facile da usare e, soprattutto il suo utilizzatore doveva avere qualità psicofisiche-spirituali di un certo valore. Sappiamo inoltre (Zoar 74 a, b) che lo Shamir era in grado di spaccare e tagliare ogni cosa; ecco perché fu indicato come un "tarlo metallico divisore" ed anche un "verme tagliente" nel Pesachim 54, che fa parte sempre del Talmud. Tornando alla Bibbia, in Geremia 17,1, troviamo il peccato di Giuda che è scritto con stilo di ferro e impresso con punta di diamante sulla tavoletta del loro cuore e sugli angoli dei loro altari. Con il nostro linguaggio d’oggi, potremmo affermare che si trattava di una penna (lo stilo che si usava all’epoca per incidere sulle tavolette di cera) recante una punta di diamante. Era un congegno "divino", affidato in casi speciali agli umani per eseguire opere di notevole importanza materiale ma soprattutto spirituale. Potremmo dire che si trattasse di una penna laser, dalla punta di diamante. I testi antichi descrivono lo Shamir con diverse grandezze: addirittura Re Salomone ne aveva scoperto uno piccolo come un chicco di grano. A parte tutte le altre cose, il diamante per questo tipo di strumento è una materia di primaria importanza. Il minerale è una delle tre forme cristalline del carbonio allo stato puro. Per la sua eccezionale durezza e le sue peculiari proprietà ottiche, rappresenta da una parte la gemma più importante nel mondo di oggi, e, dall’altra, uno strumento insostituibile nell’industria moderna. I modi di ritrovamento del diamante sono essenzialmente "in situ" nei camini vulcanici e nei depositi alluvionali, derivati dal disfacimento dei precedenti e dal successivo trasporto per opera dei fiumi. Nel nostro pianeta i primi diamanti sono provenienti dai depositi alluvionali dell’India centrale, vicino a Golconda. Nel 1725 il minerale fu rinvenuto nelle acque di lavaggio dell’oro nello Stato di Minas Gerais in Brasile e le pietre brasiliane dominarono il mercato fino al 1867, anno in cui fu riconosciuto il primo diamante, rinvenuto vicino all’Orange River in Sud Africa. Questa data ha aperto l’era moderna dello sfruttamento e dell’impiego su vasta scala del diamante. Dal 1908 la maggior fonte di diamanti è localizzata in una striscia di costa della larghezza di circa 450 Km che si estende a nord della foce dell’Orange River. Nel 1910 furono ritrovati in un immenso deposito alluvionale che si estende nello Stato dell’Angola. Altri depositi si trovano nel Ghana, nella Guaiana Britannica, in Australia, in Venezuela, nel Borneo, nel Sud Africa vicino al deserto del Kalahari. Fuori dell’Africa i soli ritrovamenti importanti sono quelli delle zone della Siberia Orientale, proprio nel bacino del fiume Viliuj. Questo è un altro tassello che si incastra benissimo nella teoria sulle costruzioni metalliche extraterrestri, ritrovate in quella zona della Siberia. Gli antichi costruttori necessitavano proprio del diamante per realizzare generatori d’antimateria di notevole potenza per contrastare i possibili effetti devastanti degli asteroidi. Anche gli egizi hanno utilizzato uno strumento tipo Shamir e il Dio Seth è rimasto nei miti di quel popolo per aver tagliato le rocce ad Abuzir. Gli Dei egiziani disponevano in sostanza del lanciatore di raggi mortali, dell’Ureus, con simbolo un cobra femmina in collera, dalla gola turgida, che personificava l’occhio infuocato del re. Lo si vede sulla fronte dei faraoni, sui fregi dei templi e adorna il capo di molte divinità solari. Con la decadenza dell’impero egiziano però l’Ureus divenne un simbolico ornamento che raffigurava un semplice serpente dalla testa alzata. Trasferendoci poi nell’America del Sud precolombiana, ci troviamo di fronte ad una tecnica muraria degli Incas che ha dell’incredibile. Non si può spiegare simili opere se non pensiamo che gli antichi popoli andini usassero sistemi di taglio straordinari del tipo Shamir. Sono state costruite città con muraglie difensive enormi, composte di massi asimmetrici perfettamente tagliati e incastrati uno nell’altro che suscitano tanta meraviglia. Nell’America Centrale poi notiamo che la civiltà Azteca ci ha lasciato alcune statue che raffigurano il cosiddetto "serpente di fuoco": lo Xiuhcoatl. Si tramanda che fosse uno strumento che emetteva raggi infuocati, capaci di perforare corpi umani. Cercando tra le leggende irlandesi, troviamo il popolo dei Tuatha de Danaan venuto dal cielo su una nuvola magica proveniente da quattro città: Findias, Gorias, Falias e Murias. In queste grandi "città" essi impararono le potenti scienze e gli studi sulle grandi magie con i saggi. Ogni città aveva un saggio come Re e da queste i Tuatha de Danaan portarono quattro magici doni all’Irlanda. Da Falias venne la pietra chiamata Lia Fail (era la pietra del destino), sulla quale i grandi Re d’Irlanda sedevano quando erano incoronati. La Lia Fail si sarebbe mossa, o avrebbe vibrato, per manifestare la sua approvazione quando il giusto monarca sarebbe stato degno di portare la sua corona. Da Gorias venne il Cliamh Solais (detto anche la Spada di Luce). Da Findias arrivò una lancia magica, e da Murias venne la "Grande Caldaia" che poteva nutrire un esercito e non essere ancora vuota. Nelle leggende celtiche si riporta che si conosceva l’Occhio di Balor, che il più vecchio dei giganti Femori aveva sull’elmo, dal quale partiva un raggio mortale e che usava contro il nemico. Lo stesso nipote di Balor, Lugh, possedeva la "Lancia Solare", ossia un lungo cilindro metallico dal quale usciva un raggio fulminante. Per tornare alla Bibbia, nell’Esodo (31,18) troviamo una dichiarazione che non lascia molti dubbi: "Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul Monte Sinai, gli dette le due Tavole della Testimonianza; tavole di pietra, scritte col Dito di Dio." Che cosa poteva essere questo "Dito di Dio", se non una "penna laser" capace di incidere un messaggio tanto importante da testimoniare il Patto col Signore, un Essere in carne ed ossa, capace di rappresentare la Forza Onnicreante dell’Universo. Un fatto simile, ma dal contenuto storico o meglio fondamentalmente preistorico, è accaduto nel centro e nel sud America. Un commerciante tedesco, Waldemar Julsrud, e il suo aiutante Odilon Tinajero raccolsero fra il 1945 e il 1952, nei pressi di Acambaro (regione di Guanajato, Messico), oltre 30.000 pietre incise con profili di sauri e mammiferi probabilmente estinti, nonché figure simili a mummie. I reperti sono stati datati al 1600 a.C. circa. Altrettante pietre riccamente incise, furono recuperate per puro caso in una cavità nascosta nei pressi della città di Ica, in Perù. Alcune di esse arrivano a pesare almeno 200 Kg, mentre la maggioranza pesano solamente qualche chilo. Tali pietre sono state per fortuna catalogate nel museo privato, appartenente al chirurgo dottor Javier Cabrera, poiché in tempi recenti sono state prodotte migliaia e migliaia di false pietre incise, copiate spesso dalle foto comparse sui giornali, a beneficio dei numerosi turisti. Quelle originali, sono pietre incise magistralmente e con una tecnica talmente precisa che ha lasciato disegni assai chiari e dettagliati da suscitare semplicemente stupore e meraviglia. Nell’osservarle, non si può fare a meno di dedurre che sono state elaborate con un congegno tipo laser che si può associare tranquillamente allo Shamir. Tra le figure incise si riconosce, tra l’altro, quella di un uomo che sta esaminando dei fossili con una lente d’ingrandimento. Un altro scruta il cielo tenendo in mano un telescopio. Accanto a mappe di regioni sconosciute, dimostrando così che la morfologia del pianeta Terra è più volte cambiata nel tempo, sono raffigurati i sauri. In altre sono riprodotti interventi chirurgici sul cervello e trapianti di cuore, con dei dettagli che hanno dell’incredibile. Approfondendo i messaggi incisi nelle pietre di Ica, si scopre che dobbiamo veramente riscrivere la storia o meglio la preistoria, ed in particolare la teoria dell’evoluzione di Darwin. Le incisioni sono mirabilmente perfette e, in definitiva, raffigurano una cultura veramente sorprendente se si considera il tempo in cui queste pietre sono state elaborate. Si conferma per l’ennesima volta che esseri d’altri mondi, già in quel tempo, istruivano i terrestri e soprattutto badavano a rendere possibile la loro sopravvivenza. Gli antichissimi reperti archeologici, di notevole importanza per recepire la verità di ieri e di oggi, concedono all’umana intelligenza la possibilità di focalizzare uno dei più importanti cardini su cui si basa l’evoluzione storica dell’umana specie, confortata dalla presenza di pionieri cosmici muniti di una superiore scienza e di una superiore coscienza. Il non volerli prendere in seria considerazione, studiandoli con solerte intelligenza e analizzandoli con scrupolosa attenzione, dimostra che l’uomo attuale vuole ignorare quelle indiscusse prove che valgono ad affermare un discorso sulle visite di esseri molto più evoluti, provenienti dagli spazi esterni. Lo stesso Shamir non sarebbe più quell’oggetto misterioso, fatalmente scomparso dalla nostra cultura e dalla nostra civiltà.
 "Il quinto mese, il sette del mese, corrispondente al diciannovesimo anno di Nabuchadnèsar, re di Babilonia, giunse a Gerusalemme Nabuzardàn, comandante della guardia, subalterno del re di Babilonia" (2 Re 25, 8).


Durante la seconda conquista di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (che la Bibbia chiama "caldei") nel 587 a.C. - con susseguente saccheggio dell'intera città, messa a ferro e fuoco, e deportazione dei suoi abitanti - dal Tempio di Salomone fu portato via tutto quanto c'era ancora di prezioso. Ma quasi ogni arredo e oggetto in oro e in argento era già stato sottratto dieci anni addietro durante il primo episodio di questo genere, quello portato a termine nel 597 a.C. dallo stesso Nabuchadnèsar, o Nabucodonosor. La spoliazione compiuta dai caldei - benché definitiva e, questa volta, completa - fu quindi, per forza di cose, più modesta quanto a valore venale, ma non per importanza. Oltre all'asportazione di tutti gli oggetti mobili, furono demoliti e portati via tutti gli accessori in bronzo del Tempio, compresa la grande vasca per la purificazione dei sacerdoti  e le due colonne, poste all'esterno ai lati dell'ingresso: modello comune a tutti gli impianti templari di questo periodo e di questo àmbito geografico. Le due colonne, delle quali la Bibbia riporta minuziose descrizioni , e alle quali Salomone aveva dato i nomi di "Jachin", quella di destra, e "Boaz", quella di sinistra (cioè, forse, "Stabilità" e "Forza"), erano cave. Fin qui, per quanto attiene la testimonianza "storica" dell'Antico Testamento. La leggenda riportata dalla tradizione midràshica, tuttavia, fornisce ulteriori dettagli. Insieme alle colonne fu asportato il loro contenuto: nella loro cavità, infatti, veniva conservato l'intero archivio storico del popolo d'Israele, assieme ai documenti che riportavano la summa di tutto il sapere e tutti i segreti scientifici. Pare poi che in seguito, per vie misteriose, quei documenti siano entrati in possesso della Massoneria, che li deterrebbe tuttora. Fra essi, era custodito il segreto di "qualcosa" che nessuno più sa cosa sia: il "magico Shamìr" .Un altro midràsh riporta che, per la costruzione del Tempio, Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale (pietra, legno, oro, avorio eccetera) doveva essere lavorato con attrezzi di ferro, il metallo di cui son fatte le armi che portano morte. L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr". Dio stesso l'aveva dato sul Sinai a Mosè, che se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote. Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto. Ma la storia racconta poi di come Salomone  riuscì a procurarselo. Il dèmone Asmodeo (che sa dove si trovano tutti i tesori nascosti) fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico (o gallo cedrone, o gallina di brughiera, o aquila di mare, a seconda delle versioni), che viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile. In quell'occasione, re Salomone riuscì con l'inganno a sottrarre il magico "tarlo" al gallo selvatico, che se lo era fatto prestare da Rahav per un caso di forza maggiore: il re infatti, proprio per costringere il pennuto a questo espediente estremo, aveva fatta porre sopra il suo nido una piccola cupola di vetro, separandolo così dai suoi piccoli. Volò verso occidente l'uccello disperato, in cerca di Rahav; quando tornò portava nel becco lo Shamìr, con il quale in pochi istanti riuscì a perforare o a disintegrare il vetro, lasciando poi cadere lo Shamìr, che Salomone lestamente raccolse. A lui che stupito chiedeva cosa mai fosse quella misteriosa e portentosa sostanza e da dove venisse, il gallo selvatico rispose che la si poteva trovare lontano, sulle Montagne dei Dormienti, e là lo condusse, dove il re ne fece scorta sufficiente a completare tutte le opere del Tempio che non potevano essere eseguite usando strumenti metallici. Particolare pietoso, si dice anche che il gallo selvatico, per la vergogna di aver perso lo Shamìr, si sia suicidato. Quante analogie (luoghi, personaggi, miracolose caratteristiche e modalità degli avvenimenti) questa leggenda mostra con altre sparse in tutto il mondo. Il racconto dà inoltre una interessante precisazione: lo Shamìr - che, almeno in alcune versioni, a fine lavori venne restituito al suo custode - venne da Salomone riposto e in seguito conservato (era quello l'unico modo di trattarlo correttamente) in un cestino pieno di crusca d'orzo. Ne "Le leggende degli ebrei" di Louis Ginzberg si legge che lo Shamìr, con altre creature soprannaturali, venne creato al crepuscolo del sesto giorno della Creazione. E' grande più o meno come un grano di frumento o d'orzo, e possiede la mirabile proprietà di tagliare qualsiasi materiale per quanto durissimo, anche il più duro dei diamanti. Per questa ragione venne utilizzato da Mosè per lavorare le gemme poste sul "pettorale del giudizio" del Sommo Sacerdote. I nomi dei capi delle dodici tribù furono dapprima tracciati con l'inchiostro sulle pietre destinate a essere incastonate nel pettorale (e anche sulle due onici dei fermagli posti sulle spalline dell'"efòd") poi lo Shamìr venne passato sui tratti che rimasero così incisi. Il fatto più straordinario fu che l'attrito (o l'azione) che segnò le gemme non produsse nessun residuo. Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva di usare per quest'opera strumenti di ferro (dal Talmud e dalla letteratura midràshica). Lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro metallo, poiché lo farebbe scoppiare. Esso va avvolto in un panno di lana e deposto in un cesto di piombo pieno di crusca d'orzo. Lo Shamìr rimase in paradiso sinché Salomone non ne ebbe bisogno e mandò l'aquila (o un altro volatile) a prenderlo. Era il più meraviglioso possesso del re. Con la fine dei lavori del Primo Tempio, o con la distruzione del Tempio stesso, lo Shamìr scomparve. Chiaramente, la leggenda su re Salomone e il gallo selvatico ha soprattutto le caratteristiche di un racconto immaginario. Contiene tuttavia un paio di indicazioni concrete, e inoltre alcune informazioni che potrebbero consentire un collegamento con miti consimili appartenenti ad altri àmbiti culturali, sia geograficamente vicini che inverosimilmente lontani. L'intero collage di citazioni midràshiche di Louis Ginzberg presenta da parte sua alcuni dati fantastici (la creazione dello Shamìr al crepuscolo del sesto giorno, insieme ad altre "creature soprannaturali"; il fatto che Salomone mandò l'"aquila" a prenderlo in paradiso), ma soprattutto vi dominano connotazioni e dettagli estremamente realistici, tali da suggerire fortemente l'impressione che la descrizione dello Shamìr che vi compare fosse frutto di osservazioni di prima mano, più che di pura fantasia. Si evince da qualche altro midràsh, che anche le due Tavole della Legge, scritte da Mosè sotto dettatura divina, erano state incise usando lo Shamìr. Nel semileggendario "Testamento di Salomone" (del III° secolo d.C.) si narra inoltre che, durante la costruzione del Tempio, gli operai addetti ai lavori soffrivano di un male misterioso che provocava grande spossatezza: ogni giorno più pallidi, con profonde occhiaie, deperivano, non riuscivano più a lavorare, e ogni notte erano visitati da vampiri e dèmoni che li affamavano rubando loro il cibo (il che, a parer mio, significa che rimettevano anche l'anima). Quando incominciarono a morire, il re salì sul monte Moria e pregò Dio, il quale gli mandò in dono - tramite l'arcangelo Michele - il famoso anello d'oro, con incisi la stella e il Suo ineffabile Nome, che dava poteri straordinari e immensa saggezza (in quell'anello fu più tardi incastonato lo Shamìr, che era una specie di rutilante "pietra verde", un "portentoso gioiello che irradiava luce"). Vampiri e dèmoni furono messi, al posto degli operai, a tagliar pietre giorno e notte. Particolarità: 1) lo Shamìr poteva essere usato per foggiare e per lavorare qualunque minerale, anche le pietre più dure - un midràsh dice "anche il legno duro come pietra" - diamante compreso (che, in alcune versioni, figura tra le gemme del pettorale); era in grado di intaccare anche il vetro; la sua azione non lasciava residui ; 2) il suo aspetto era quello di un "qualcosa" delle dimensioni di un granello d'orzo, forse di colore verde; 3) non poteva essere conservato in un contenitore metallico chiuso, che sarebbe esploso (o si sarebbe fuso): liberava vapori? o che altro;  4) solo il piombo, anzi un recipiente non ermetico di piombo, se protetto da una adeguata coibentazione, poteva resistere alla corrosione (o comunque alla reazione chimica) da esso prodotta; 5) non danneggiava la lana né la crusca, e - con qualche problema - si poteva manipolarlo a mani nude; 6) non inibiva la crescita delle piante; 7) con l'andar del tempo (si parla di circa 400 anni, quelli intercorsi fra la costruzione e la distruzione del Tempio; ma forse ne occorsero molti meno) "scomparve", o meglio "divenne inattivo" .  Il dizionario ebraico-italiano, alla voce "SHAMIR", elenca infatti diverse, mirabilmente eclettiche definizioni: 1) diamante; 2) verme leggendario che tagliava le pietre per il Santuario; 3) finocchio; 4) paliuro. L'unica indicazione aggiuntiva viene dal termine, subito sotto riportato, di "niàr shamìr" che in ebraico moderno a tutt'oggi, correntemente, indica la comune "carta vetrata", cioè qualcosa che consuma e corrode.
ipotesi...era forse un...
MINERALE ? "Shamìr" viene, pare, dall'antica parola indoeuropea "smer", che indica una "polvere minerale per levigare o segare"; e non si può negare che in effetti la funzione del "nostro" Shamìr sia quella, né che nei due vocaboli sia presente la medesima radice "SMR". In greco quel materiale venne chiamato "smeris" o "smiris", in latino "smericulum", in francese e in inglese moderni rispettivamente "émeri" ed "emery", in italiano infine "smeriglio". Con quel termine si definiva (e si definisce tuttora) un notissimo abrasivo proveniente dall'isola di Naxos nelle Cicladi (che tuttora lo esporta), e ricavato polverizzando una locale varietà granulare compatta di corindone. Da nessuna parte sta scritto che fosse un dono divino gestito da un uccello, circondato da un alone di leggenda, né che avesse abitudini esplosive, o che facesse ammalare la gente, o che avesse l'aspetto di un granello d'orzo, o che si inattivasse dopo un certo tempo. Tutto ciò che questo materiale inerte sa fare è unicamente levigare e lucidare, più o meno come la normale pomice o la polvere di quarzo - e soltanto in parte - l'affinità dell'uso, sarò costretta ad accantonare questa ipotesi. Viene chiamata  "smeriglio"anche una specie di uccello predatore molto piccola appartenente alla famiglia dei Falconidi, ed è pure un altro nome con cui viene indicato lo sparviere. "DIAMANTE" (?): E' il dizionario stesso che, con quel punto interrogativo, manifesta nei riguardi di questa interpretazione la sua perplessità. Infatti (per quanto il termine "Shamìr" compaia diverse volte nei Libri di alcuni Profeti a indicare qualcosa di più duro della roccia e del ferro), è chiaro che, accogliendo tale definizione, ciò che viene considerato, pure qui, è soltanto il possibile effetto, il risultato dell'azione svolta sul materiale lavorato. Anche questo punto di vista, in più, lascia aperti altri problemi, poiché un'incisione eseguita con una punta di diamante produce limatura o polvere, contrariamente a quanto veniva detto dello Shamìr (anzi era proprio questo, per gli autori dei midrashìm, uno dei suoi aspetti più straordinari). L'ipotesi, oltre tutto, diviene ancora più fragile se si considera che in teoria con quel "diamante" dovrebbero essere state tagliate in misura e rifinite le enormi pietre messe in opera nella costruzione del Tempio. In ogni caso, l'impiego per quell'uso del diamante (pietra pure allora assai rara e preziosa, tanto da far parte forse del pettorale del Sommo Sacerdote) sarebbe stato insostenibilmente dispendioso. E, a parte questo, dove avrebbe potuto Salomone procurarsene i quantitativi necessari, visto che non risulta che in Israele né in Egitto o in altri paesi vicini esistano giacimenti diamantiferi? D'altronde, nemmeno tale lettura tiene in alcun conto le altre numerose indicazioni contrarie: né le dimensioni indicate, né il carattere "esplosivo" dello Shamìr, e neppure l'affermazione che col tempo esso divenisse "inattivo". Insomma, a parte l'effettiva "capacità" del diamante di tagliare qualunque pietra, non c'è nessun elemento che concordi. Cosa che, credo, ci autorizza a escludere questa identificazione.
SOSTANZA RADIOATTIVA: una qualche - non ben precisata - forma di energia. Un articolo di David Salkeld  richiama ed approfondisce quello già citato di Velikovsky : "colore verde" (forse), simile a quello di alcuni sali di elementi pesanti; corrosività nei confronti di tutti i minerali e metalli tranne il piombo; "inattivazione" nello spazio di 400 anni o meno. Era perciò giunto a identificare - per quanto non esplicitamente - lo Shamìr con qualche tipo di sostanza radioattiva. Poteva forse trattarsi del radium, o di un suo sale, o di qualche altro isotopo della serie dell'uranio, dell'attinio o del torio: purché avesse una "vita energetica" compatibile con la durata documentata dell'attività dello Shamìr (valutata in circa 900 anni, cioè dall'epoca dell'esodo a quella della distruzione del Primo Tempio; ammesso naturalmente che si trattasse sempre dello stesso Shamìr). E' un dato di fatto che oggi in natura i minerali radioattivi - per quanto forse più abbondanti in passato - sono rarissimi sulla superficie terrestre (3-4 grammi di radium dispersi in 2000 tonnellate di pechblenda), e possiamo supporre che, 3500 anni fa, chi non ne conoscesse le potenzialità ben difficilmente avrebbe investito il suo tempo e le sue energie per procurarseli con l'estrazione mineraria. E c'è inoltre il problema che, anche in questo caso, né in Israele né nei paesi limitrofi sono noti giacimenti di tali minerali. Tuttavia, poteva anche darsi che la miracolosa e inidentificata sostanza fosse stata trovata "concentrata" in superficie, cioè - per così dire - già pronta all'uso, e che, riconosciutene la natura "speciale" e le peculiari proprietà fosse stata conservata e quindi utilizzata nei modi già visti. - presumibilmente 1) Precipitato con un bolide meteoritico. La presenza, nel racconto su re Salomone e il gallo selvatico, sia dell'Angelo del Mare che di un uccello: "segno" che lo Shamìr veniva dal cielo. Una "pestilenza" verificatasi sotto il regno di Davide, durata tre giorni e che uccise 70.000 persone, portata a Gerusalemme da un "Angelo sterminatore che stava fra cielo e terra con la spada sguainata": si trattava forse di "morte nucleare" da contaminazione radioattiva? Ma quale "peste", nucleare o biologica che sia, agisce solo per tre giorni? Il "fatto" che, dopo quell'avvenimento, il re Davide - con grande costernazione di tutta la corte - divenne stranamente debole e impotente (ma aveva anche settant'anni!), e che pure Salomone più tardi fu ben poco prolifico. Secondo quanto Salkeld ipotizza, questi potrebbero essere indizi dei nefasti effetti delle radiazioni, prodotti dallo Shamìr sulla persona di chi, venutone in possesso, se lo fosse portato sempre addosso come un talismano celeste: l'uno e poi l'altro re, appunto. Ora, a favore della tesi meteoritica, bisogna ammettere che è pur vero che molte leggende in tutto il mondo parlano di "pietre magiche" dai presunti straordinari poteri, di solito cadute dal cielo. E' parimenti vero che molti santuari e luoghi di culto divennero oggetto di particolare venerazione proprio per la presenza di un meteorite che, nell'anima popolare, avrebbe rappresentato il segno concreto di una particolare benevolenza divina verso quel sito: la Kaaba della Mecca e il Tempio di Diana ad Efeso, per non citarne che un paio. (Per converso, una credenza assai diffusa, e che si è in parte conservata anche fino ai giorni nostri, vuole che la caduta di pietre dal cielo e/o il passaggio ravvicinato di comete siano inesorabilmente portatori di guai, e strettamente connessi con pestilenze, carestie, guerre e catastrofi in genere.) Tuttavia, come lo stesso Salkeld riconosce, in nessun meteorite recuperato sono mai stati segnalati inconsueti valori di radioattività né, per altro, nessuno di essi è mai stato trovato dotato di particolari "poteri". I midrashìm affermano che lo Shamìr fu creato il sesto giorno: ciò, secondo Salkeld, sembra suggerire (oltre al fatto che forse era noto già in un lontano passato) che, in ogni caso, la sua origine sarebbe da collocarsi al tempo dei catastrofici sconvolgimenti della Creazione. La sua seconda apparizione - questa volta, "pubblica" -, nelle mani di Mosè, risalirebbe ai tempi dell'esodo: pure questo un evento collegato, secondo Velikovsky, ad altri disastri cosmici. E per concludere, anche la performance dello Shamìr che, come sopra detto, si sarebbe verificata durante il regno di Davide, avrebbe un'origine meteoritica. Comunque dopo la sua creazione, essa pure ovviamente "celeste", sia nell'uno che nell'altro caso (dell'uso che Salomone ne fece però non si parla) la presenza dello Shamìr sarebbe in relazione con la caduta di qualche bolide molto anomalo e strano. Ancora più strano, però, appare il fatto che questo tipo di detriti cosmici veramente "speciali" sarebbe caduto soltanto in quelle rare occasioni - sempre sul territorio di Israele - e poi mai più.
seconda ipotesi: 2) Creato da scariche elettriche. Sostiene Velikovsky che nel lontano passato elementi radioattivi, come quelli che oggi otteniamo artificialmente in laboratorio, potrebbero essersi formati "naturalmente" sulla superficie terrestre (a partire da altri elementi), nel corso di eventi eccezionali quali tremende scariche elettriche prodotte da un bombardamento cometario o meteoritico. Salkeld, cautamente, concorda, rammentando una delle geniali (e sconvolgenti per la scienza "ufficiale") previsioni azzeccate di Velikovsky: il quale era convinto che sulla Luna sarebbero stati trovati alti livelli di radioattività, e ne attribuiva la causa alle scariche elettriche interplanetarie di 2700 e 3500 anni fa, verificatesi nel corso delle presunte catastrofi cosmiche da lui teorizzate. Infatti l'esplorazione lunare gli ha dato ragione: che nel cratere Aristarco siano presenti emissioni di radon-222 di almeno quattro volte più alte della media lunare, è appunto per gli accademici un mistero senza spiegazione. Sfortunatamente, né Salkeld né - si pensa - nessun altro è attualmente in grado di calcolare di quale potenza, per "formare" sostanze radioattive da altre, inerti, dovrebbero essere le mostruose scariche elettriche intercorse, in ipotesi, fra la terra ed un altro corpo celeste, nel corso di un "incontro ravvicinato". Dipende, mi sembra, dalla differenza di potenziale fra i due oggetti. E nemmeno siamo al presente in grado di dire se quel fenomeno - non tanto le scariche, quanto le loro conseguenze - si sia effettivamente potuto verificare. Né, tanto meno, quando. O in concomitanza con cosa. Visto che di un simile evento non esiste alcuna memoria storica - e neppure, quanto a questo, leggendaria -, né testimonianza geologica o scientifica d'altro tipo, dovremo accontentarci di supporre che quanto affermato "potrebbe" - chissà quando - essere successo. Ma le prove sono un'altra cosa. Salkeld peraltro non insiste né sull'una né sull'altra teoria, consapevole del fatto che - se mai radioattività c'è stata - al giorno d'oggi non sarebbe ormai più rilevabile: in tutti i casi il normale decadimento avrebbe già da tempo reso qualunque materiale ("caduto" o "formatosi" in un passato così abissalmente lontano) nulla più che un innocuo pezzo di pietra. In molti siti megalitici in Inghilterra (per la precisione, al centro di preistorici cerchi di "pietre erette") si registrano tuttora significative letture di radioattività - di origine ignota -, ovviamente residua rispetto ai valori presumibili all'epoca della costruzione. Indubbiamente erano luoghi sacri e speciali. Ma - e con Salkeld abbiamo finito - viene naturale chiedersi se questa "sacralità" fosse positiva o negativa. In altre parole (per quanto non sia chiaro come, all'epoca, fosse possibile misurare le radiazioni), se quei cerchi venissero eretti come strutture "off limits", segnali della pericolosità di un luogo cui non conveniva avvicinarsi, o per il motivo opposto, facendo salvo in tutti i casi il loro significato magico-astronomico. Salomone era un pozzo di scienza, lo sanno tutti; era di una sapienza e di una saggezza strabilianti; da mezzo mondo tutti i più potenti re della terra venivano a Gerusalemme per consultarlo, per avere lumi. Se lo Shamìr era veramente radioattivo, e quindi gravemente deleterio per la salute, non è pensabile che, conoscendo tali proprietà negative o effetti collaterali indesiderati, fosse così incosciente da portarselo sempre addosso. A quanto pare, invece, il "magico Shamìr" era qualcosa che si poteva - con molta precauzione, e probabilmente riportandone danni non indifferenti - manipolare ed utilizzare almeno per un certo tempo. E allora non era radioattivo. Per un eminente studioso si trattava di una specie di laser primitivo, in cui la luce coerente sarebbe stata prodotta facendola passare per un forellino, ottenuto dallo stampo di un capello di un adulto, oppure da quello del capello di un bambino.
ANIMALE ?  "VERME": Per la verità il midràsh che ne parla, nella raccolta di Ginzberg, dice che "la salamandra e lo Shamìr sono i più mirabili tra i rettili"; ma diversi altri racconti, e anche il dizionario, lo definiscono senza incertezze come "verme".  In ogni caso, trasformare in "rettile" il "verme", o in alternativa il "tarlo" (o altro insetto), sembra proprio l'interpretazione di una interpretazione. (Il termine "insetto", fra l'altro, deriverebbe dall'erronea traduzione del latino "insectator", cioè "tagliatore"). A me pare invece che tale significato possa essere utile solo ad indicare - come nel caso del diamante e dello smeriglio - l'azione meccanica ed un effetto consimile che tali animali potrebbero avere prodotto, ma di sicuro non sugli stessi materiali. Altra ipotesi, secondo la quale il "verme" potrebbe essere assimilabile ad un "serpente", animale mitico di cui le tradizioni religiose e cosmiche traboccano (ad ogni buon conto questa teoria si basa principalmente sul fatto che si dovesse trattare comunque di un essere vivente) e tutta la storia letteraria dell'antico Vicino Oriente - compresa ovviamente quella ebraica - manifesta un forte interesse per il ruolo, spesso simbolico, svolto da molti animali nella vita degli uomini, soprattutto in senso didattico, moralistico e sapienziale. Di questo essere si diceva che il suo sguardo (di un verme? come vedere gli occhi?) facesse morire, così come quello di Medusa faceva impietrire.
VEGETALE ?  "FINOCCHIO":  ipotesi impensabile... non ha proprio niente da spartire con il "magico Shamìr". "PALIURO" (Paliurus) - botanica: Va sotto questo nome una pianta della famiglia delle Ramnacee, che ne comprende sei specie, cinque delle quali però (presenti in Cina e Giappone) non si trovano nei nostri climi. Quello che a noi interessa, poiché cresce in Africa e nell'Europa mediterranea, è il Paliurus spina-Christi, detto anche Paliurus aculeatus Lamarck, o più popolarmente "marruca", che è il nostro biancospino. Viene descritto come un arbusto (ma può raggiungere anche i sei metri di altezza) molto ramoso e spinoso dal legno duro e resistente, con foglie alterne ovate, dotate di due stipole spinose disuguali. Porta fiori piccoli raccolti in cime, e frutti (drupe) con margine alato largo fino a tre centimetri. Il nome "spina di Cristo" deriva dalla credenza che dei suoi rami fosse fatta la "corona" con la quale Gesù fu proclamato "re dei Giudei". E' citato da Teocrito, Strabone, Euripide e Teofrasto. Il profeta Isaia (a differenza di Geremia, Ezechiele e Zaccaria - citati alla nota 13 - i quali quando si riferiscono allo Shamìr intendono sempre qualcosa di "più duro del diamante"), tutte le volte che nomina quello stesso Shamìr, ne parla come di "spini e pruni" o di "rovi e pruni"? E' chiaro che per Isaia non si trattava di un minerale né tanto meno di un animale, ma di una pungentissima pianta, che di sicuro non era il finocchio, ma che poteva essere il Paliurus.
Lo Shamìr e i suoi parenti Oltre agli animali fantastici,  tutti i miti parlano spesso e volentieri di varie piante dalle magiche proprietà, ma è ovvio che, se l'"iniziato" intende conservare il potere che gli deriva dai suoi speciali "filtri" o "pozioni" (d'amore, di morte, di forza o d'immortalità), deve mantenerne segreti non solo i procedimenti di preparazione, ma innanzitutto gli ingredienti, e nella fattispecie le piante che li compongono. Tale era per esempio la misteriosa pianta subacquea che "ha spine come il rovo, come la rosa", trovata da Gilgamesh in fondo all'Abzu (ma in seguito perduta), e che avrebbe dovuto restituirgli la svanita giovinezza. Oppure l'altrettanto enigmatica "pianta del parto" o "della nascita", che avrebbe consentito ad Etana (secondo la "Lista reale Sumerica", tredicesimo re di Kish dopo il Diluvio) di avere finalmente dalla sua sposa un erede, e per cogliere la quale - primo essere umano nella storia - quel sovrano volò fino in cielo sulle ali dell'aquila. Ma moltissime altre sono, nelle leggende, le piante miracolose. Ad esse è associato un qualche volatile, dotato anch'esso di inusuali caratteristiche e spesso di grandi dimensioni. Nel sud dell'Iraq e nell'Iran occidentale, le tradizioni dell'antichissima religione dei mandei, o sabei, parlano appunto del grande uccello Simurgh, che ha profonde conoscenze di saggezza segreta e che possiede un elisir che guarisce tutte le ferite, purifica ogni sostanza, ringiovanisce il corpo, prolunga la vita e rende invulnerabili. Nei miti iraniani quell'elisir viene chiamato col termine avestico di "haoma" ed è prodotto anche qui da una pianta, forse da una liana rampicante della famiglia delle Gnetacee, l'Ephedra, che cresce in cima ai monti o nelle valli più nascoste; ma potrebbe essere stato estratto anche dal fungo Fly-Agarico, allucinogeno usato dagli sciamani da 10.000 anni e letteralmente adorato come un dio (o era, magari più verosimilmente, alcool?). L'"haoma", che fortifica e dà poteri soprannaturali ma ha anche effetti intossicanti, viene custodito, in questa versione, dall'uccello Saena, che lo concede agli dei ed in qualche caso anche agli uomini, ma solo a quelli particolarmente meritevoli.
Per gli indù è invece il mitico Garuda, mezzo gigante e mezzo aquila, che gestisce l'Ambrosia o Amrita, nettare inebriante o "soma" (in sanscrito; corrisponde all'"haoma") importantissimo nei riti della religione vedica, che dà poteri superiori agli dei "asura" e li rende immortali. Pure in questo caso, il "soma" è tratto da una pianta - generalmente identificata con una liana rampicante della famiglia delle Asclepiadacee - che cresce su di un albero, vicino al Monte Elburz dove vivevano gli uomini-uccello, noto solo a questi. E' probabile che alla base di questo mito ci sia una antica origine comune con l'"albero della vita" della Genesi, che avrebbe reso gli uomini onniscienti, immortali e simili agli dèi. Inoltre, in  sud america, ad esempio, sono state ritrovate mura megalitiche fatte con blocchi di dimensioni mostruose messi in opera con precisione millimetrica, inumana. Minute, delicatissime incisioni su pietre di estrema durezza. Oggetti, in pietra altrettanto dura, lavorati come fossero modellati in creta. Senza attrezzi metallici, come voleva Salomone, poiché metalli adatti non ce n'erano.  Una leggenda iraniana senza tempo narra, tra le altre cose, che il re Zal appena nato fu "esposto" dal padre ed allevato - guarda caso - dal "nobile avvoltoio" Simurgh, il quale in questo racconto ricopre anche (in occasione della difficile nascita del figlio di Zal: si parla nientemeno che del primo taglio cesareo della storia) il ruolo di ostetrico, chirurgo e perfino anestesista. Ma ciò che qui più importa è che tanto Zal, una volta salito al trono, che la sua sposa "splendevano" per la presenza di un'"essenza divina", chiamata "farr" o "khvarnah" ("Fortuna del Re" e "Gloria di Dio"), la quale permetteva di scavare le sostanze più dure, forgiare metalli e addirittura conoscere la natura di Dio. Senza di essa, tangibile simbolo dell'investitura celeste, un re non poteva regnare. Sull'altopiano anatolico, a Catal Huyuk (la cui età di almeno 8500 anni è documentata, oltre che dalla datazione al carbonio 14, da un "murale" che rappresenta l'eruzione - avvenuta nel 6200 a.C. - su quella città del vulcano dalle due cime Hasan Dag), una cultura molto progredita, la quale già praticava la metallurgia del rame e del piombo, comparve all'improvviso: sorprendentemente, il minerale più usato, e trattato con notevole perizia tecnologica, era l'ossidiana, che nella "scala delle durezze" di Mohs occupa il settimo posto. Vi pare normale? Ma quel materiale, importato dalle stesse zone, veniva lavorato circa a quell'epoca anche a Gerico dai natufiani proto-neolitici, e ancor prima (fin dal 10.000 a.C.) sui Monti Zagros, a Nimrud Dag, in Armenia, sul Lago Van. La finissima esecuzione di lavori in ossidiana è anche una delle più salienti caratteristiche della cultura che in Cappadocia, a partire dal 9500 a.C., costruì qualcosa come 36 città sotterranee articolate su 18-20 livelli e in grado di ospitare una popolazione da 100.000 a 200.000 anime. Scavate nella viva roccia, le abitazioni (che i locali chiamano "camini delle fate", poiché le credono opera degli "angeli caduti" e tuttora abitate dagli Jinn o dalle Peri ) sono collegate fra loro da una rete di tunnel alti anche più di due metri, e oltre a ciò sono aerate da numerosi condotti di ventilazione, lunghi molti metri e con un diametro medio di 4 centimetri. Scavati come? Ma è soltanto qualche millennio più tardi, quando improvvisa poco dopo il 4000 a.C. esplose la grande civiltà del "Paese fra i due fiumi", seguìta dappresso da quella egizia, che ebbe inizio in questa parte del mondo allora conosciuto quella straordinaria produzione di oggetti d'uso ma più che altro di opere d'arte in pietra, che ci lascia tuttora ammirati, ma anche perplessi e sconcertati per la sua incredibile accuratezza in rapporto agli utensili (o almeno a quelli a noi noti) di cui si presume l'impiego. Si tratta di  incisioni - figure e scritte - delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7), sul diaspro (idem), sull'onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto: iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri. Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l'aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale? E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell'argilla o nella cera? Tutti questi manufatti e infiniti altri - meravigliosi nell'aspetto e di fattura perfetta - sembrano eseguiti con la massima facilità, come se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile. Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l'aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico ("Le pietre magiche", di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un "punteruolo consacrato"; ma non riesco davvero a immaginare di che tipo di attrezzo si trattasse. L'unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di scalfirle - con santa pazienza oppure, al giorno d'oggi, utilizzando altissime velocità di rotazione - con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro. Ma non esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente impiegato. La Bibbia in alcune delle diverse versioni che riportano l'elenco delle gemme del pettorale di Aronne cita, è vero, anche il "diamante", ma la cosa è fortemente improbabile per vari motivi: benché ritenuta anch'essa carica di energie misteriose, questa pietra non era usata innanzi tutto perché la tecnica non aveva fino ad allora raggiunto (e non l'avrebbe fatto per un lunghissimo tempo ancora) il livello indispensabile per saperla tagliare; in secondo luogo, le pietre colorate piacevano molto di più del cristallino e incolore diamante, che dà ben poca soddisfazione all'occhio a meno che non sia adeguatamente sfaccettato. E comunque, stiamo parlando del diamante non in quanto pietra ornamentale, bensì di un suo eventuale uso come strumento di lavoro: per cui, anche in questo caso, valgono le considerazioni di alto costo e di difficile reperibilità già sopra esposte. Tanto più se l'oggetto da lavorare era di grandi o magari grandissime dimensioni. L'ingegner Pincherle, che di queste cose se ne intende, afferma invece che su quelle opere sono visibili i segni dello scalpello, che doveva essere di ottimo acciaio (strumenti in rame oppure in bronzo, qualora non si fossero sbriciolati sotto la pressione e l'attrito, avrebbero immediatamente "perso il taglio", e avrebbero dovuto essere continuamente riparati ed affilati).  Eppure al tempo di cui si parla non solamente non esisteva ancora niente di paragonabile a "un ottimo acciaio", ma il ferro stesso (per quanto riguarda attrezzi ed utensili) era ben di là da venire. Gli unici metalli a quell'epoca disponibili, per quel che troviamo scritto e per quanto l'archeologia ci ha restituito, erano tutti metalli teneri (rame, argento, oro, piombo, stagno, o - nella migliore delle ipotesi - rame martellato e leghe di bronzo), inadatti alle lavorazioni richieste. Ergo, a questo interrogativo tecnico non c'è risposta. E anzi, dobbiamo per di più retrodatare questo mistero ad epoche anche più remote, dato che a quanto pare le prime statue in diorite, eseguite da quelli che erano i migliori tagliatori di quei tempi, cioè gli ioni e i sardiani, risalgono all'epoca di Sargon il Grande di Accad, attorno al 2350 a.C. Che è poi, almeno secondo la cronologia ufficiale, più o meno il periodo in cui in Egitto furono erette le piramidi. Ma qui la datazione d'inizio di questo tipo di lavorazione sprofonda ancor più nel passato. Perché le cose più mirabolanti le troviamo, fin dai primordi stessi di quella civiltà, proprio nell'antico paese del Nilo: una terra dove, a differenza di Sumer o Babilonia, abbondano sia le pietre preziose che, precipuamente, quelle da opera. "Civiltà della pietra", la chiamano anche infatti. Dai siti di "Naqada" dell'oscuro e lontanissimo periodo predinastico (cultura gerzeana, 3500-3100 a.C.), dalle principesche tombe protodinastiche di Abidos, dai sotterranei della piramide di Zoser a Saqqara sono tornati alla luce quantitativi incredibili (più di 30.000 esemplari solo in quest'ultimo sito) di stupendo vasellame - integro o in pezzi - di svariatissimo disegno, e innumerevoli altri articoli, in ogni sorta di materiale litico. Non solo i più trattabili alabastro, ardesia, scisto o calcare, ma diorite, quarzite, granito (minerale anche in seguito molto amato in Egitto), basalto e loro varietà. I vasi, le coppe e tutti gli altri recipienti rinvenuti, pezzi di grande raffinatezza, con pareti dallo spessore minimo, simmetrici, rifiniti e levigati in maniera ineccepibile, sembrano lavorati al tornio: cosa che si ritiene decisamente impossibile. Molte delle anfore - scavate ed a volte perfino incise all'interno non si capisce come - hanno un collo sottilissimo, elegantemente allungato, e un'imboccatura così stretta che non ci passa nemmeno un dito. Fra i reperti datati al periodo più antico c'è anche una lente di cristallo, talmente perfetta che sembra molata meccanicamente. Il più antico nome di un sovrano ritrovato a Saqqara è quello di Narmer, che fu forse Menes, il leggendario unificatore dei due regni del Basso e dell'Alto Egitto: è inciso su di una coppa di porfido (avete presente il porfido? ci si fanno le pavimentazioni stradali). E di lì in poi - sparse ovunque - decine di migliaia di oggetti piccoli e grandi di tutte le specie, di statue, obelischi (alti fino a 73 metri, dice Plinio), stele, e centinaia di migliaia, anzi milioni di blocchi da costruzione e di rocchi di colonne, e chilometri quadrati di bassorilievi incisi, scolpiti, di geroglifici iscritti su quelle durissime rocce.  La tradizione, in effetti, afferma che i "sapienti" egiziani avevano messa a punto (a meno che non l'avessero ereditata o importata da qualche altra zona geografica) una speciale "mistura vegetale" in grado di disgregare superficialmente qualunque - sia pur durissima - roccia o pietra e di trasformarla in una sorta di malleabile pasta (quella sì, lavorabile con i normali strumenti in rame o in bronzo) la quale, una volta evaporato quella specie di "solvente", si sarebbe ricompattata rendendo all'oggetto l'aspetto e la consistenza originari. Molti dei rilievi successivi, rinunciando a qualsiasi pretesa di profondità, mostrano soltanto una grossolana incisione tutto attorno alle figure le quali, appena vagamente arrotondate ai margini, non emergono per niente dal fondo del quale sono allo stesso livello, per cui tecnicamente non si potrebbero nemmeno più chiamare bassorilievi.  Tutti sanno che la Grande Piramide, per citare solo quella, è stata costruita a secco, e che i blocchi che la compongono non sono legati con malta. E' stato trovato però, fra un corso e l'altro dei blocchi e pure tra le giunzioni verticali, un sottilissimo strato di materiale inidentificato, del quale si sa tuttavia che contiene residui vegetali. Era forse quel misterioso "solvente" che, consumando e livellando la superficie irregolare delle pietre, ne consentiva la perfetta sovrapposizione, agendo inoltre quasi come un collante?  In tal caso, quanto maggiore era il peso delle pietre sovrapposte, tanto più coerente e solida sarebbe riuscita la costruzione, per via della pressione esercitata che - con l'aiuto della reazione chimica - avrebbe fatto combaciare e, per così dire, cementato assieme quei massi semplicemente appoggiati l'uno sull'altro (come si sa, il peso medio dei blocchi di calcare della Grande Piramide è di circa 2,5 tonnellate, per non parlare di quelli granitici - il cui peso arriva forse a 200 tonnellate - della struttura interna, per la quale rimando agli studi di Pincherle). Usando quel materiale, inoltre, sarebbero stati ben più agevoli di quanto si pensi l'estrazione ed il taglio dei blocchi in cava: un problema al quale tuttora non abbiamo saputo dare spiegazioni davvero esaurienti. Dopo il periodo di splendore della costruzione delle grandi piramidi in pietra, tutto quel che di "piramidale" ci rimane delle epoche più tarde sono soltanto dei miserabili e informi mucchi di mattoni semicrudi, che piano piano finiscono di disfarsi in polvere sotto lo spietato sole del deserto? Come a Nippur, come a Ur, regni di argilla.  Tra le sabbie della piana di Giza sono stati trovati sia fori cilindrici in blocchi di granito che "carote" della stessa pietra (ma non sappiamo se corrispondente a quella del "sarcofago"), che sono state analizzate dal tecnico utensilista Christopher Dunn: all'indagine microscopica questi pezzi mostrano un doppio solco elicoidale eseguito con un trapano - o sega tubolare - che procedeva nella roccia con una velocità di penetrazione media di 2,5 millimetri ad ogni rotazione. Si tenga presente che un trapano moderno, che utilizza le tecnologie ed i materiali più avanzati, compie 900 giri al minuto e penetra nel granito ad una velocità di mm 0,05 per ogni giro. Il che vorrebbe dire che i trapani egizi di 4500 anni fa lavoravano a velocità qualche centinaio di volte superiori rispetto a quelle dei trapani attuali. Mossi da quale energia? Dunn è convinto che la risposta si trovi nell'uso di sconosciuti (e perduti) strumenti a ultrasuoni, che utilizzavano vibrazioni ad alta frequenza. Dallo Yucatan a Tula, dall'Ecuador al Titicaca, molte culture precolombiane forniscono spettacolari esempi di scultura ed architettura nei quali sono presenti le stesse caratteristiche: produzione di manufatti realizzati, in pietra, senza nessun uso di strumenti metallici, quasi fossero stati plasmati nell'argilla. Piuttosto che di oggetti di dimensioni contenute - ma pure le statue e gli splendidi rilievi maya, olmechi, toltechi, aztechi, preincaici e inca, come le enigmatiche andesiti incise, le cosiddette "pietre di Ica", fanno parte dello stesso mistero - si tratta qui però prevalentemente ( impressionanti monumenti del Perù) di costruzioni megalitiche, edificate con blocchi di granito che  sarebbe stato impossibile assemblare con qualunque altro metodo. Uso di frequenze ultrasoniche per estrarre, trasportare e sollevare massi del peso di varie decine e in qualche caso persino di alcune centinaia di tonnellate (vedi anche le strutture egizie, siriane ed altre)? Le stupende, perfette mura di Sacsayhuaman, di Ollantaytambo, di Cuzco, di Machu Picchu, collimando in maniera così perfetta che, come si sa, nelle commessure non c'è spazio "nemmeno per un foglio di carta". Un lavoro del genere in teoria richiederebbe infinite misurazioni, tentativi, prove: cosa impensabile considerandone il peso e il fatto che furono messi in opera senza l'uso di animali da lavoro, né di ruote per argani . Sembrano invece, quelle pietre (la cui forma non squadrata è la migliore dimostrazione della grande padronanza delle tecniche antisismiche usate), fuse insieme da una qualche forza misteriosa, schiacciate e compattate dal loro stesso peso l'una contro e sull'altra a mo'di enormi cuscini fino a riempire ogni spazio e interstizio fra loro, come se invece che dure rocce fossero ammassi di morbida mota. O trattate, appunto, con una sostanza corrosiva che ne "condizionò" le superfici di contatto, se non la struttura stessa. Impressione che deriva pure dalla loro faccia esterna, sempre come leggermente "gonfia", arrotondata, liscia come se fosse stata rifinita semplicemente raschiando via tutte le asperità insieme al materiale in eccesso.  L'esploratore Percy Fawcett, in un passo di "Operazione Fawcett" dice infatti che gli inca, ereditando le fortezze e le città edificate dalla razza che li aveva preceduti, le restaurarono servendosi delle medesime tecniche costruttive (e cioè di quel "solvente"). E racconta poi un episodio in cui un esperto minerario statunitense, che lavorava nelle Ande del Perù centrale a 4.500 metri di altezza, trovò in una tomba preincaica una giara di terracotta ancora piena di liquido. Quel liquido, versato incidentalmente su di una roccia, dopo circa dieci minuti ne era stato assorbito, "e la roccia era diventata molle come cemento bagnato, come se la pietra si fosse sciolta a guisa di cera sotto l'effetto del caldo". L'archeologa Mirella Rostaing, dal canto suo, ne "I misteri dei mondi" riporta una conversazione da lei avuta con uno sciamano nei pressi del lago Titicaca a proposito di un tipico cespuglio locale detto "ghacre ". La pianta, che somigliava ad un "rampicante orizzontale" e che manipolata diveniva molliccia e appiccicosa, aveva corroso come un acido buona parte degli stivali dell'archeologa, che ci aveva camminato in mezzo.
tratto da: Episteme N. 6 - Parte I - Giano Bifronte  La vera natura del "magico Shamìr" (di Lia Mangolini)


...la libertà non può essere un investimento. La libertà è un'avventura senza fine, in cui rischiamo la nostra vita e molto più per pochi istanti di qualcosa al di là delle parole, al di là dei pensieri o dei sentimenti.Don Juan Matus, L'Arte di Sognare

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